Mio padre ha fumato per tutta la sua vita adulta. Ha avuto numerosi disturbi fisici, inclusa la colite ulcerosa, per ironia una delle poche malattie per le quali il fumo risulta benefico. Nel 1974, quando si trovava ricoverato in ospedale per la colite, una radiografia al torace di routine rivelò la presenza di un'ombra nel suo polmone. Il Dr. Neligan, il chirurgo convocato, spiegò a mia madre l'importanza di un'operazione.
Il nostro medico di famiglia a quel tempo era il Dr. Lapin, che fin dalla mia infanzia ricordavo come un uomo alto, brizzolato e distinto, che spesso indossava un papillon. Era stato in servizio, mi fu raccontato, come medico nell'esercito britannico, fatto molto insolito allora in Irlanda. Agli occhi di un bambino, il Dr. Lapin appariva disinvoltamente saggio e oltre i limiti della religione, della politica e di tutte quelle divisioni che avevo visto altrove.
Quando agli inizi degli anni ‘60 mia madre andò incontro a problemi di salute in seguito al parto, il Dr. Lapin le suggerì di farsi vedere da lui una volta alla settimana. All'epoca, però, mia madre ritenne che questa prescrizione fosse troppo indeterminata nel tempo e che non potesse permettersela. Si fece visitare invece da un altro medico, che le diagnosticò un'ulcera e che infine la sottopose all'operazione usuale di quel periodo, che consisteva nel taglio del nervo vago e nella rimozione di una parte dello stomaco. Quest'operazione la lasciò con problemi intestinali per il resto della sua vita, e con il rimpianto di non aver accettato la proposta del Dr. Lapin per il trattamento di quella che avrebbe poi considerato come depressione post-partum.
Quando mia madre gli chiese un consulto riguardo la sensatezza di un'operazione per mio padre, il Dr. Lapin temporeggiò. Ma incalzato da domande sempre più pressanti, alla fine spiegò che mio padre aveva numerose malattie, ciascuna delle quali avrebbe potuto ucciderlo prima che fosse il cancro a farlo. Molte persone, disse, finivano nella loro tomba affette da tumori, da malattie cardiache o da altri problemi, senza che questi fossero la causa diretta della morte. Un'operazione sarebbe stata parecchio impegnativa per lui.
Mia madre espose questa prospettiva a mio padre e gli suggerì di prendersi sei mesi per rimettersi in forze e di sottoporsi all'eventuale intervento solo qualora ne fosse in grado; lui fu d'accordo. Quando il programma fu riferito al chirurgo, questi rispose: “Va bene, ma portatelo via dall'ospedale entro quarantotto ore.” E quando mia madre gli disse che mio padre ancora non sapeva di avere il cancro, il chirurgo andò immediatamente a comunicarglielo. Senza l'intervento mio padre sarebbe morto in pochi mesi, disse il Dr. Neligan, ma un'operazione avrebbe offerto la possibilità di una cura. Mio padre, allarmato, acconsentì e l'operazione ebbe luogo due giorni dopo. Il Dr. Neligan successivamente disse che c'era poco che si potesse fare riguardo il tumore di mio padre, quando lo aprirono sul tavolo operatorio. Mio padre morì sei mesi dopo, e la sua vita fu quasi certamente accorciata dall'intervento.
Se ci fossero stati progressi di cui parlare per la cura del cancro al polmone, negli anni successivi alla morte di mio padre, il suo trattamento medico potrebbe essere visto come uno di quei sacrifici a beneficio dei posteri. Ma ci sono stati ben pochi progressi, nonostante i passi in avanti su quasi tutti i fronti medici, strombazzati quotidianamente. Veri progressi sono stati compiuti in alcuni campi, ma in una quantità assai più esigua di quanto molte persone siano portate a credere. E cosa ancora più importante, quando giungono grazie ai medicinali, molti di questi apparenti progressi sostengono e contribuiscono a quello che nei decenni recenti è divenuto un'implacabile degrado nelle cure mediche, una sostituzione dei vari Dr. Lapin con medici simili al Dr. Neligan, in una corsa verso il Pharmageddon. Mentre i farmaci non hanno preso parte in ciò che è accaduto a mio padre, essi hanno però assunto un ruolo enorme nel favorire l'approccio chirurgico nella pratica medica, quasi una specie di corsia ospedaliera preferenziale.
La malattia di mio padre si manifestò proprio mentre entravo alla facoltà di medicina, settant'anni dopo un importante cambiamento avvenuto nella pratica clinica occidentale. Attorno al novecento, una serie di nuove procedure diagnostiche, alcune basate sull'analisi del sangue, altre basate sui raggi X, e altre ancora che coinvolgevano la cultura batterica di campioni di saliva o di urina, mettevano i medici in condizione di distinguere svariate patologie e di trovarne i possibili rimedi. Prima di ciò, la diagnosi che i pazienti ricevevano era basata sul loro aspetto e su ciò che essi riferivano quando entravano nello studio medico – se erano deboli e stanchi, erano “debilitati”; se perdevano peso soffrivano di “consunzione”. Se ricevevano la diagnosi di un tumore, ciò avveniva perché esso era visibile o riconosci bile al tatto; se avevano il diabete, era perché la loro urina aveva un odore riconoscibile. Con lo sviluppo di nuovi esami, però, la diagnosi cominciò a essere formulata solo dopo che un esame del sangue o una radiografia confermasse la natura del problema, magari settimane dopo la visita medica o il ricovero in ospedale. E gli esami rivelavano nuove patologie, come infarti e ulcere duodenali. Tra gli stati di consunzione, appariva chiaro che alcuni di essi fossero attribuibili alla tubercolosi.
Emergeva così un nuovo tipo di medici e di ospedali. A Boston, Richard Cabot divenne famoso per il suo acume diagnostico, e la reputazione del Massachusetts General Hospital, nei primi decenni del ventesimo secolo, cominciò a crescere vertiginosamente grazie all'abilità dei suoi medici, aiutati dalle nuove tecnologie, nell'ottenere la corretta diagnosi che, si presumeva, avrebbe portato a cure mediche migliori. Ma altri erano preoccupati. Alfred Worcester, professore di igiene ed eminente medico del Massachusetts, che venne successivamente acclamato come padre sia della geriatria moderna che delle cure palliative2, si rammaricò del fatto che “le richieste delle diagnosi moderne distraevano i medici dallo sviluppare e mettere in pratica la loro tradizionale conoscenza della natura umana.” Worcester temeva che il ricorso alle nuove tecniche di diagnosi alterasse il rapporto del medico con i suoi pazienti. Assorbiti dalle nuove tecnologie, i medici avrebbero perso la loro capacità di manifestare una positiva influenza terapeutica sui loro pazienti.
Un buon trattamento medico, come potremmo tutti immaginare, dovrebbe cercare di abbracciare le visioni sia di Cabot che di Worcester. Le nuove tecniche, dopo tutto, hanno fatto una grande differenza nella nostra capacità di aiutare i pazienti e, nonostante un trattamento medico più umano sia meraviglioso, la maggior parte delle persone considera eccellente una cura perfino se il medico non gli piace particolarmente. I pazienti all'inizio del ventesimo secolo decisero di rivolgersi alla nuova generazione di specialisti. Ma come il caso di mio padre mostra fin troppo vividamente, bisogna raggiungere l'equilibrio tra il prendersi cura e cercare una cura, e questo equilibrio è particolarmente importante nei molti casi in cui una vera e propria cura non è possibile.
L'iniziale preoccupazione che la medicina potesse perdere la sua anima accudente in cambio di cure materiali venne messa da parte negli anni ‘40 e ‘50, quando furono disponibili svariati nuovi trattamenti capaci di salvare vite. E mentre si compivano anche grandi progressi nel campo della chirurgia, culminanti negli epocali primi trapianti di rene e di cuore, il mondo della farmaceutica raggiunse un importante punto di svolta. In aggiunta all'offerta di nuovi approcci terapeutici, nuovi farmaci come gli immunosoppressori e gli antibiotici posero le basi per ulteriori sviluppi nella chirurgia e in altre aree della medicina.
Nonostante questi progressi stupefacenti – invero, secondo alcuni critici, in parte proprio a causa di essi – le preoccupazioni riguardo la specializzazione medica riemersero negli anni ‘60, incorniciate in termini di medicalizzazione. Osservatori preoccupati facevano notare che si stava cedendo troppo potere al mondo medico impegnato a rendere patologiche grandi fette di vita quotidiana, senza assumersi la responsabilità di definire che cosa volesse dire essere umani. La più potente critica alla medicalizzazione provenne dal filosofo austriaco Ivan Illich nel suo libro intitolato Medical Nemesis, pubblicato nel 1975, l'anno in cui morì mio padre.
Ripensandoci, la metà degli anni ‘70 può essere considerata quasi come l'apice dell'ascesa della medicina. L'industria farmaceutica era ancora un partner minoritario dell'establishment medico. Ma con l'inversione dei ruoli e con il potere dell'industria farmaceutica che diveniva via via più predominante, i riferimenti alla medicalizzazione dalla metà degli anni 2000 hanno cominciato a essere rimpiazzati da riferimenti alla farmacologizzazione, che vede sempre più le nostre identità come una serie di comportamenti da gestire mediante l'uso dei farmaci.
Nel 2007, Charles Medawar, il maggior portavoce degli utenti del sistema sanitario della Gran Bretagna, ha sollevato la prospettiva di qualcosa che va oltre la farmacologizzazione: “Temo che stiamo procedendo ciecamente nella direzione del Pharmageddon. Il Pharmageddon è un paradosso diagnostico: individualmente beneficiamo di alcune meravigliose medicine, mentre collettivamente stiamo perdendo di vista il senso della salute. Per fare un'analogia, si pensi al rapporto tra un viaggio in automobile e ai cambiamenti climatici – sono inestricabilmente connessi, ma è probabile che non lo siano neppure remotamente nella mente del guidatore. Così come i cambiamenti climatici sembrano inconcepibili quali risultati di un viaggio, così la nozione di Pharmageddon è assolutamente contraddetta dall'esperienza personale sulle medicine.”
Con “Pharmageddon”, ciò che Medawar e i suoi colleghi (incluso me) intendevano, era qualcosa di ben diverso dalla semplice farmacologizzazione, in cui si parla più dei nostri neurotrasmettitori che dei nostri stati d'animo, un riduzionismo biologico del secolarismo. Pharmageddon non si riferisce a un cambiamento del linguaggio della medicina o a un passaggio dal linguaggio religioso a quello biologico, ma a un processo proposto inizialmente nella convinzione che saremmo stati più capaci di prenderci cura l'uno dell'altro, sebbene ora sia di fatto un processo che sembra mirato a eliminare le nostre capacità di occuparci del paziente – un destino che si realizza contrariamente a ciò che ciascuno vuole. Al centro di questo processo c'è la svolta verso la quantificazione avvenuta nella metà del ventesimo secolo. Sebbene di per sé molto utile, questa svolta ha fornito all'assistenza sanitaria un insieme di pubblicazioni scientifiche che un gruppo di accorti analisti ed esperti di marketing sono stati capaci di manipolare, per infettare le nostre capacità di esercitare una medicina umana, come un virus clinico dell'immunodeficienza (CIV). Di conseguenza, le reazioni di difesa che ci saremmo potuti aspettare da parte di riviste mediche prestigiose e di associazioni professionali semplicemente non si sono manifestate. Il virus invece sembra essere stato capace di piegare queste organizzazioni ai propri scopi in modo che, quando vengono sollevate delle critiche, esse reagiscono come se fosse loro preciso dovere difendere alcune fragili aziende dalle attenzioni maligne della vigilanza farmaceutica.
La propagazione del Pharmageddon
A partire dagli anni ‘70 è avvenuto un profondo cambiamento sia nella natura dei farmaci presenti sul mercato che nella pratica della medicina. Nuovi farmaci, come le statine, hanno continuato a essere prodotti contemporaneamente ai nuovi esami diagnostici per misurare, ad esempio, i nostri livelli di colesterolo, evidentemente in quella tradizione degli esami di laboratorio che hanno portato ai tanti progressi medici dell'inizio del ventesimo secolo. Ma se prima farmaci ed esami erano indirizzati verso la diagnosi e il trattamento di malattie con imminente rischio di vita, ora la pratica medica si è progressivamente orientata verso il trattamento di malattie croniche con farmaci che modificano fattori di rischio e stili di vita, anziché salvare vite. Questo è un mondo post-Worcesteriano e post-Cabotiano, nel quale le industrie farmaceutiche vendono malattie piuttosto che cure.
In superficie, la pratica della medicina è sempre la stessa, ma non lo è anche a un esame più approfondito. Ad esempio, alcune persone soffrono di una patologia genetica che porta a livelli eccessivamente elevati il colesterolo, e a costoro farmaci come le statine possono salvare la vita quasi nello stesso modo in cui gli antibiotici o l'insulina hanno salvato vite mezzo secolo fa. Le statine possono anche salvare vite tra coloro i quali hanno avuto ictus o infarti e anche tra i fumatori e chi è in sovrappeso, ma in questo caso a centinaia dovrebbero essere persuasi a prenderle per il resto della loro vita, affinché solo una manciata di questi possa essere salvata. Nella maggior parte dei casi, invece, le statine sono somministrate a persone sane con lievi aumenti nei livelli di colesterolo. In maniera simile, le terapie per l'asma o per l'osteoporosi vengono oggi prescritte a molte persone che non avrebbero mai ricevuto tali diagnosi e tali trattamenti in passato. La terapia adesso viene stabilita in seguito ai risultati di una serie di esami di laboratorio emersi negli ultimi anni – esami che non sono utili alla formulazione di una diagnosi che attenui una minaccia alle nostre vite. Esami che portano effettivamente a diagnosticare una sorta di carenza di farmaci, e che spesso entrano nella pratica medica come parte di una strategia di mercato per un nuovo farmaco.
Queste nuove malattie e le loro relative terapie ci hanno conquistato perché sono ritenute le rappresentanti dei più recenti passi in avanti nella storia del progresso medico, che inizia dall'insulina e dagli antibiotici e che un giorno forse condurrà alla cura del cancro. Questi sono i farmaci che, quando sono stati resi disponibili sul mercato, alcuni ritennero capaci di salvare molte persone della generazione di mio padre. Ma ben lontano dal salvare sia le loro vite che le nostre, le evidenze cliniche dimostrano che un uso indiscriminato di farmaci per abbassare i livelli dei lipidi o degli zuccheri nel sangue, per attenuare problemi respiratori o per bloccare gli ormoni dello stress, può perfino aumentare il rischio di morte, e ciò sembra accadere negli Stati Uniti, il paese che fa il maggiore uso dei più recenti medicinali e in cui, a partire dalla metà degli anni ‘70, le aspettative di vita sono calate progressivamente restando ben lontano dagli altri paesi sviluppati.
Se trenta o quarant'anni fa ci si guardava attorno in un ristorante, in un cinema, in un ufficio in cui vi fossero cento o più persone, si poteva predire che il 5 o il 10% di esse avesse un problema di natura medica – talvolta a loro insaputa – e un medico esperto sarebbe stato capace di identificarli semplicemente guardandosi in giro. Se ci si guarda attorno nello stesso ristorante o ufficio oggi, osservando persone apparentemente in salute, cioè quelli che un medico non può immediatamente identificare come malati, è probabile che l'80 o il 90% di essi possa aver diagnosticato una di queste nuove “malattie”. Quasi tutti avranno valori di colesterolo, glicemia, pressione sanguigna, densità ossea, o asma, oppure uno di quei “disturbi mentali” il cui numero è in continua crescita, e per i quali verrà suggerito un farmaco. Contrariamente a quanto accadeva quando si riceveva la diagnosi di una malattia tradizionale, queste persone non riceveranno una diagnosi pur soffrendo e recandosi da un medico. Riceveranno una diagnosi perché un intero sistema andrà verso di loro, forse casualmente quando si recheranno nello studio del medico per qualche altro problema, o forse, in futuro, quando dentro un vicino supermercato un nuovo apparecchio mostrerà che i loro “valori” non sono abbastanza giusti. Sarà quindi solo allora che cominceranno a soffrire, o a causa del disagio e della paura che segue la diagnosi, o a causa dei veri e propri effetti collaterali causati dalla nuova pillola che è stata loro prescritta – pillola che è stata messa in commercio come una risposta ai valori non rigorosamente esatti di ciascuno di noi.
Libri recenti hanno tentato di esaminare cosa ci sia al centro della nostra crescente preoccupazione riguardo ciò che sta accadendo alle cure mediche. Questi studi critici quasi universalmente accusano le industrie farmaceutiche, che sono attualmente tra le società più redditizie sul nostro pianeta, a causa di stime notevolmente gonfiate sui costi di sviluppo dei farmaci e a causa dell'emergenza dei cosiddetti blockbuster – medicinali che generano profitti per almeno un miliardo di dollari all'anno – di trarre eccessivi guadagni. Questo denaro permette loro di ottenere lobbisti e influenza, di attirare in vari modi l'attenzione dei medici, così come di sponsorizzare gruppi di pazienti affinché si schierino contro i tentativi di limitare in ogni modo l'accesso alle cure più moderne e costose.
Questi critici preoccupati, che provengono in larga misura dalla professione medica, mentre sollevano fondate obiezioni e richiamano l'attenzione affinché vengano affrontati i problemi posti dall'industria farmaceutica, sono il ritratto di una medicina fondamentalmente sana. La serenità di questi medici deriva dalla loro percezione che, al contrario di com'era in precedenza, la medicina è ora solidamente consolidata all'interno dei bastioni della scienza. Questa scienza non è la scienza che è emersa dai laboratori alla fine del secolo scorso con medici come Richard Cabot, ma piuttosto la scienza degli esperimenti randomizzati controllati (RCT) sviluppata a partire dagli anni ‘50. In questi esperimenti i nuovi farmaci sono confrontati con medicinali finti, o placebo, ed è solamente quando i primi “vincono” il confronto con i secondi, che vengono autorizzati al commercio.
Questi esperimenti hanno gettato le basi per quella che è stata chiamata evidence based medicine. I risultati degli esperimenti RCT sono anche inclusi nelle linee guida basate sulle prove per il trattamento di diverse malattie, e queste linee guida, quando vengono impugnate da particolari enti, pongono limiti alle prescrizioni e alle ricette che i medici possono scrivere. Molti professionisti coinvolti nel sistema sanitario vedono queste linee guida come una modalità per mantenere i medici all'interno di un percorso ristretto e rigido di comportamenti terapeutici, qualsiasi siano le blandizie delle industrie che producono medicinali o apparecchi sanitari. Pochi sospettano, come argomenterò nei capitoli 5 e 6, che queste linee guida di fatto consegnino la medicina in mano all'industria farmaceutica. Nella misura in cui “medicina basata sulle prove” significa che i medici si attengono alle cure che “funzionano” ed eliminano quelle che non lo fanno, molti professionisti dell'ambito sanitario la interpretano come l'unica base possibile per un sistema sanitario universale, se tale sistema è desiderato. Ma come accade attualmente, la medicina basata sulle prove fa suonare le campane a morto per la possibilità di un sistema sanitario universale negli Stati Uniti o per la sua sopravvivenza in altri paesi.
Convinti che qualcosa non stia funzionando correttamente, ci guardiamo attorno per trovare i colpevoli e spesso ci soffermiamo sulle compagnie assicurative o su altri enti che pagano i costi dei nostri problemi. Sebbene molte delle lamentele contro le compagnie assicurative siano legittime, allo stesso tempo hanno sempre meno presa sull'agenda del sistema sanitario. Poiché solo i farmaci e il tipo di cura a essi associata sono stati dimostrati come efficaci, le compagnie assicurative sono intrappolate nel dover rimborsare questi trattamenti, e nel caso di ricoveri ospedalieri, spesso solo per periodi di tempo che permettono poco più che l'istituzione di un regime di cure con farmaci. Agendo così, si limitano a seguire le linee guida elaborate sulla base della migliore prova fornita da accademici senza legami con l'industria – linee guida che usualmente si basano sui più recenti e costosi trattamenti, a discapito di modalità di cura più efficaci, più economiche e più umane.
La classe medica, consapevole dei problemi nel suo interfacciarsi con l'industria farmaceutica, ma non sicura della causa di questi problemi, accetta sempre di più che vi siano figure autorevoli e altri opinion leader di campi specifici che abbiano legami eccessivamente stretti con l'industria farmaceutica o abbiano altri conflitti di interesse. Ma questi medici universitari sono considerati semplicemente come le mele marce che possono essere trovate in ogni cesto di frutta, e si presuppone che il loro comportamento verrà corretto da nuove regole richiedenti l'esplicitazione dei rapporti con le industrie farmaceutiche.
Vi è un esteso riconoscimento che, per essere approvato, un nuovo farmaco deve essere sottoposto a sperimentazioni progettate e implementate dalle case farmaceutiche, e vi è la crescente consapevolezza che, piuttosto che essere scritte nelle riviste scientifiche da ricercatori universitari i cui nomi appaiono nella lista degli autori, le pubblicazioni scientifiche provengano spesso dalla penna di ghostwriter. Ma per molti commentatori, questi sono semplicemente ulteriori ragioni per frenare l'industria farmaceutica, piuttosto che motivi per considerare il bisogno di cambiamenti più incisivi riguardo la natura dell'attuale sistema dei brevetti dei farmaci o l'obbligo di prescrizione medica per molti farmaci, o una maggiore attenzione a come la pratica dei ghostwriter e altre pratiche, illustrate nei capitoli 4 e 5, compromettano le cure cliniche.
Criticare il successo non è una formula vincente. In un'economia di mercato quale industria si sforza di avere meno successo? La porta è lasciata abbastanza aperta perché le case farmaceutiche argomentino dicendo che il motivo per cui vi sono tanti problemi nell'assistenza sanitaria è che le basi economiche dei sistemi sanitari non sono completamente nelle mani del mercato. Questa argomentazione è talmente seducente che anche i commentatori orientati a sinistra, sia negli Stati Uniti che in Europa, concedono un certo grado di validità alle proposte secondo cui i progressi nel campo della salute debbano coinvolgere in qualche misura il mercato.
Per l'industria farmaceutica, gli attacchi da parte della comunità medica si sono trasformati in una sorta di rope-a-dope. Come Muhammad Ali, hanno lasciato che i “pugni medici” di George Foreman rimanessero al di fuori di problemi quali il conflitto di interessi, la sponsorizzazione dei gruppi di pazienti e i ghostwriter. L'industria è ben felice di sorreggersi alle corde del ring e di accettare la punizione.
Spiegherò ora che i problemi che stanno alla base degli attacchi da parte della comunità medica e da parte di altri commentatori provengono da tre fonti non riconosciute altrove. Secondo la prima, all'inizio dell'era moderna della pratica medica, negli anni ‘50, furono cambiate le basi del sistema di brevetto dei farmaci, permettendo così all'industria farmaceutica di avere il monopolio dei medicinali in un modo che prima non aveva. Ciò ha permesso lo sviluppo dei farmaci blockbuster, ponendo le basi per il mercato di medicinali che vediamo oggi. La seconda, ancora negli anni ‘50: questi farmaci erano disponibili esclusivamente con prescrizione medica e ricetta, mettendo così un gruppo di persone relativamente piccolo e senza alcuna formazione e conoscenza delle tecniche di marketing – i medici – nel mirino del più sofisticato macchinario di marketing esistente sul pianeta. Terza: essendo stati sotto assedio da parte dell'industria per un secolo, negli anni ‘60 noi medici ci siamo svegliati trovando un cavallo al di fuori delle porte di Troia sotto forma di sperimentazioni controllate, e lo abbiamo portato dentro non accorgendoci che gli esperimenti elaborati dall'industria forniscono prove miracolose dei benefici dei farmaci, ma anche prove abbastanza modeste su cosa possa essere meglio per i pazienti.
Su questo sfondo, pur essendo importante, la discussione sui conflitti d'interesse e sui ghostwriter non è che la punta dell'iceberg. Dobbiamo chiederci se la fiducia nelle sperimentazioni controllate, quando non ci viene concesso di vedere i dati di quelle sperimentazioni, può proteggerci dalle distorsioni del commercio. Se rendere i medicinali disponibili soltanto sotto prescrizione medica è appropriato in un'era di farmaci blockbuster. Se le basi sulle quali noi oggi permettiamo ai farmaci di essere brevettati stanno dando alla società quei benefici cui brevetti erano originariamente indirizzati. Come ora spiegherò, ogni assalto all'industria ha invece paradossalmente rafforzato l'apparente bisogno di sperimentazioni controllate, di obblighi di prescrizione e di ricetta medica, di brevetto dei prodotti e di ulteriori norme regolatrici, e tutto ciò ha legato in modo più ravvicinato la professione medica e i governi alle industrie farmaceutiche. Questi sono i cambiamenti che insieme hanno gettato le basi che hanno permesso all'industria di creare i blockbuster e finché questi cambiamenti rimarranno non discussi, l'industria sarà lieta di stare alle corde e incassare i colpi.
In tempi di cambiamento, vi è la tentazione di esaltare le virtù di precedenti epoche dorate. Ma mentre i cani possono abbaiare, il carrozzone comunque continua ad andare avanti. Intere nostre generazioni hanno dato la loro fiducia e la vita dei propri cari nelle mani di medici che offrivano gli ultimi ritrovati della medicina. Il progresso può essere lento in alcuni settori, ma quando si tratta di vita, di morte e di disabilità, molti di noi – come mio padre – opteranno per quelli che ci offrono la speranza, per quanto esigua essa possa essere. Finora, abbiamo fatto bene ad agire così. C'è una ragione per pensare che un autore che offre uno scenario di Pharmageddon dovrebbe sollevare la questione più approfonditamente di quanto hanno fatto in passato critici attenti che vanno da Alfred Worcester a Ivan Illich? Può la miglior critica fare altro che chiederci di smettere di sperare?
Worcester, Illich e altri hanno parlato della nostra perdita di umanità e di capacità nel prenderci cura. In parte queste critiche non hanno avuto successo, sebbene nessuno voglia perdere la propria umanità o la capacità di curare, in quanto non esistono delle precise specifiche sul significato di curare o di riconoscere il momento in cui la nostra umanità viene minacciata. In parte queste critiche non hanno avuto successo perché fino a tempi recenti, qualsiasi siano stati gli inconvenienti dovuti al progresso, c'erano pochi dubbi che l'aspettativa di vita stesse aumentando. Tutto ciò ora sta cambiando. Viviamo in un mondo in cui abbiamo sempre più bisogno di protezione dall'ultima cura miracolosa, per essere certi di non morire prematuramente proprio a causa sua.
Non sarebbe mai un buon approccio terapeutico quello di negare una cura. Ma la saggezza medica tradizionale di Worcester cui si era ispirato il medico di mio padre, il Dr. Lapin, sottolineò l'essenziale importanza di essere capaci di riconoscere quando un trattamento può peggiorare le cose anziché migliorarle. Questa filosofia è stata ben espressa duecento anni fa da Philippe Pinel, un medico che curava i malati mentali a Parigi, in piena rivoluzione francese: “È un'arte di non poca importanza quella di somministrare medicine in maniera appropriata,” disse, “ma è un'arte più importante e di più difficile acquisizione sapere quando interromperle o non somministrarle del tutto.”
Le cure per definizione dovrebbero portare a un calo nel consumo di farmaci, così come le buone cure mediche definite da Pinel. Invece, abbiamo visto uno stupefacente e inarrestabile aumento nella vendita di presunte panacee, che fanno poco o nulla per salvare vite o per migliorarne la qualità in modo significativo. Il consumo di farmaci blockbuster è cresciuto dal 6% nel mercato farmaceutico del 1991, al 45% nel 2006, con dieci farmaci in testa alla classifica che, insieme, raggiungono i 60 miliardi di dollari di vendite annuali. Se una volta l'industria farmaceutica traeva i propri profitti dai farmaci che fornivano una cura, ora i maggiori guadagni risiedono nel mercato delle patologie croniche, per le quali i farmaci più venduti offrono modesti benefici. Stiamo letteralmente prendendo pillole per salvare la vita di quelle aziende che hanno più interesse per la vitalità delle malattie per cui producono farmaci, che per il nostro benessere. L'unico parallelo storico che abbiamo è il fiorire di brevetti o di medicinali proprietari tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.
Nel 2010 il mercato globale farmaceutico valeva complessivamente più di 900 miliardi di dollari, più del salvataggio dell'economia degli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria del 2008. Metà di questa somma proviene dalle vendite all'interno degli Stati Uniti, e la sua quasi totalità deriva dal trattamento di malattie croniche, piuttosto che da trattamenti salvavita. Lasciando da parte i trattamenti per il cancro, nel mercato globale farmaceutico di quell'anno i farmaci più venduti erano gli antidepressivi, gli stabilizzatori dell'umore e altri farmaci del sistema nervoso centrale (50 miliardi di dollari), seguiti dalle statine per abbassare il colesterolo (34 miliardi di dollari), che assieme agli altri farmaci per le malattie cardiovascolari costituivano un mercato di 105 miliardi di dollari, gli inibitori della pompa protonica per il reflusso acido (26 miliardi di dollari), gli ipoglicemizzanti (24 miliardi di dollari), i trattamenti per l'asma come Advair (da solo 8 miliardi di dollari), i trattamenti per l'osteoporosi e i farmaci come il Viagra per le disfunzioni sessuali.
Queste celebrità, o farmaci blockbuster, sono andati incontro a una crescita nelle vendite su scala mondiale tra il 10 e 20% all'anno; hanno avuto una crescita perfino durante la crisi finanziaria. Quando i mercati di Cina e India entreranno pienamente in gioco, i profitti non potranno che crescere ancora, presumibilmente raddoppiandosi. Il rialzo di questi farmaci è dell'ordine di svariate migliaia di punti percentuali, e ora valgono più del loro peso in oro. Non ci sono altri beni in nessuna parte dell'economia che producano dei ritorni come questi, e i margini di profitto delle aziende che li producono superano largamente quelli di qualsiasi altra azienda.
Se questi flussi di denaro salvassero le nostre vite o ristabilissero la produttività delle persone sarebbero ampiamente giustificabili, ma in molti casi, quando i medici parlano di abbassare i nostri livelli di colesterolo con una statina, in realtà stanno parlando di gestione del rischio. E non stanno parlando di salvare la nostra vita, bensì di fornirci un trattamento per tutta la durata della nostra vita. La statina che ci viene prescritta può abbassare i nostri livelli di colesterolo, ma ciò che è di maggior importanza è il marketing delle industrie farmaceutiche che ha cambiato sia la percezione dei medici che la nostra, in modo che l'abbassamento del colesterolo viene visto come tanto importante quanto il trattamento di una malattia come la tubercolosi.
Questo atteggiamento di mercato ci sta costantemente portando da quella che era la pratica della medicina a un mercato limitato ai prodotti sanitari, e in verità non solo a un mercato, ma alla creazione di un nuovo universo sanitario – un universo in cui il centro dell'attenzione si è spostato dalla medicina, nella quale il progresso avveniva lentamente ma con beneficio dei pazienti, a un mercato di prodotti in cui scienza e progresso sono divenuti termini commerciali e in cui i benefici si manifestano a favore delle industrie anche quando i pazienti ne sono danneggiati.
È facile affermare che in questo processo stiamo avvelenando la nostra capacità di curare. Ma cos'è la cura e qual è la prova che sia stata avvelenata? La cura è ciò che i medici danno ai pazienti affetti da qualcosa che minaccia di togliergli la vita o di lasciarli disabili. Il trattamento ideale coinvolgerà il prendersi cura dei pazienti. Ma cosa fare se la minaccia di disabilità o di morte proviene dal trattamento stesso? I danni causati dai farmaci sono ora la quarta principale causa di morte per soggetti ospedalizzati. Sono probabilmente la maggiore causa singola di disabilità nel mondo sviluppato. Il costo dei farmaci è spesso dibattuto in relazione all'aumento del costo del sistema sanitario, ma gli amministratori sanitari spendono più denaro per il trattamento dei problemi di salute indotti dal trattamento di quanto spendano per i farmaci, senza nessuno sforzo apparente per tentare di arrestare questa emorragia di vite e di denaro. Perché tutto ciò dovrebbe accadere? Se ci rivolgiamo alla scienza basata su prove per prenderci cura e idealmente per curare un nuovo problema che ci affligge, ci accorgiamo che non c'è nulla – nessuna linea guida, nessuno studio, ma invece un abbandono quasi totale di ogni prova che le cose possano andare male.
Quando consideriamo le cure mediche, i miliardi di dollari in cui sono avviluppate le vendite farmaceutiche ci raccontano solo parte della storia. Fino a tempi recenti in medicina c'era un vigoroso dibattito sull'appropriatezza di vari approcci per trattare le malattie e prendersi cura dei pazienti, i congressi medici erano affollati di ricercatori che dibattevano appassionatamente punti di vista diversi in discussioni che spesso erano centrate sulla gestione dei rischi di un trattamento. Ma il denaro derivante dal mercato dei blockbuster farmaceutici sta progressivamente mettendo a tacere il dibattito sulle diverse opzioni terapeutiche e ogni discussione sui rischi posti dai blockbuster. Questo non è un problema limitato agli Stati Uniti – il silenzio si sta ora estendendo a tutto il mondo.
Cinquant'anni fa numerosi paesi europei hanno messo in atto un sistema sanitario universale. Oggi, in un momento critico nella storia del sistema sanitario, gli Stati Uniti stanno cercando di allargare la copertura sanitaria. Cinquant'anni fa aveva senso usare il denaro dei contribuenti per trattare malattie reali come la polmonite e la tubercolosi, per esempio, facendo rialzare le persone dal loro letto di morte e mettendole in condizione di tornare al lavoro, o togliendole dagli elenchi di disabili e rimettendole in condizione di essere di nuovo produttive. Questo è un investimento. Se siamo in grado di curare malattie mortali o invalidanti, il denaro dei contribuenti viene ripagato automaticamente – ciò renderebbe gli Stati Uniti, per esempio, più ricchi e più capaci di competere con la Cina, Giappone ed Europa. Ma trattare i livelli elevati di colesterolo e altri “disturbi dei valori di laboratorio” in sempre più grandi fasce di popolazione quando le necessità mediche non lo richiedono, significa verosimilmente portare a una diminuzione della produttività americana, incrementando preoccupazione per la propria salute e sgradevoli effetti collaterali, quando non causano una morte prematura – e questo uso dei medicinali è esattamente ciò che gli americani fanno più dei cittadini di ogni altro paese del pianeta. Questa è una spesa piuttosto che un investimento. Inoltre, questa è una spesa che sta danneggiando l'industria americana, considerato che quasi tutti ora hanno dei valori di laboratorio che le industrie farmaceutiche descrivono come bisognosi di un trattamento.
L'amministrazione Obama e altri hanno suggerito che l'unico modo razionale per procedere è quello di attenersi alla medicina basata sulle prove. Ma come le compagnie assicurative hanno appena scoperto, coloro i quali seguiranno questa direzione dovranno confrontarsi con le sperimentazioni controllate che dimostrano come i più recenti trattamenti con i farmaci funzionino e, apparentemente, consentano di risparmiare denaro. Troveranno linee guida elaborate dalle più rilevanti e indipendenti figure nel campo, che promuovono energicamente l'uso dei farmaci più recenti. Gli verrà detto che il maggiore problema è costituito dai medici che non riescono ad aderire alle linee guida basate sulle prove. Una nuova generazione di aziende web-based sta perfino offrendo di sviluppare dispositivi per analizzare cartelle cliniche elettroniche, al fine di garantire l'adesione dei medici alle ultime linee guida e rendere impossibile qualsiasi libera scelta.
In un mondo dove grandi società possono venderci acqua in bottiglia, sembra che praticamente nessuno si sia chiesto come questo potere commerciale possa essere stato applicato alle terapie farmacologiche. Se lo scopo del commercio farmaceutico è quello di scoprire che cosa vogliono i dottori affinché siano essi stessi a venderlo – ed è così – e se i dottori dicono di essere influenzati dalla prova scientifica più di qualsiasi altra cosa – e lo fanno – non dovrebbe essere una sorpresa che l'industria si assicuri che la prova punti nella giusta direzione. La disponibilità dei farmaci solo con prescrizione medica, in queste circostanze, rende il lavoro degli esperti di mercato estremamente più facile di quanto diversamente potrebbe essere, consentendo di puntare a un piccolo numero di consumatori che, quando si tratta di marketing, sono spesso più ingenui di un adolescente medio.
Abbiamo quindi uno straordinario paradosso che non attira assolutamente nessun commento. Da una parte la classe medica vede la medicina basata sulle prove come uno dei nostri mezzi migliori per frenare l'industria farmaceutica mentre, dall'altra parte, l'industria farmaceutica è divenuta proprio una delle maggiori sostenitrici della medicina basata sulle prove. Ed è esattamente questo tipo di prova scientifica che le autorità amministrative, sia negli Stati Uniti che in Europa, sembrano usare nella convinzione di controllare così i costi della sanità.
Se il Catch-22 non fosse esistito, avremmo bisogno di inventarlo ora.
Evitare il Pharmageddon
Mentre l'impiego di ghostwriter da parte delle case farmaceutiche ha cominciato a fare notizia, vi è scarsa consapevolezza di come le principali riviste mediche si siano rese complici di questa pratica, e di come, a confronto con gli articoli sui rischi di un dato trattamento, esse si siano sottoposte all'autocensura nel timore di azioni legali. Non c'è nessuna analisi che cerchi di spiegare come le linee guida per un trattamento, tracciate da strutture accademiche indipendenti dall'industria, costantemente approvino i ritrovati più recenti.
Tutto questo accade mentre i medici e i loro pazienti si lamentano dei profondi cambiamenti avvenuti nei loro riscontri clinici. Mentre una volta consultavamo i nostri medici perché avevamo un problema e incontravamo un medico che poteva accorgersi delle differenze che presentavamo da una visita all'altra – accorgendosi magari di un problema causato da una specifica cura – ora è molto più probabile trovare un volto diverso tutte le volte che ci rechiamo in un ambulatorio. Il compito principale di molti medici è passato dall'attenzione nel comprendere il manifestarsi di malattie mortali o di effetti collaterali dannosi causati dai farmaci, all'osservazione dello schermo di un computer, per esaminare i risultati degli ultimi esami sui nostri fattori di rischio e gestirne i valori numerici in base delle linee guida. Non a caso i dirigenti, che sono sempre più responsabili della gestione del sistema sanitario negli Stati Uniti e in Europa, ritengono che, se il compito dei medici riguarda la valutazione di numeri sullo schermo di un computer e l'applicazione delle linee guida per decidere le azioni successive, allora i medici dovrebbero essere intercambiabili.
Il coinvolgimento di un medico con la persona che si trova di fronte a lui o lei ora significa sempre più che, sulla base degli obiettivi indicati dalle linee guida, il suo ruolo è di “istruire”, per persuadere o costringere il paziente a una cura per patologie che non ha mai saputo di avere, con trattamenti che, in alcuni casi, è più probabile che lo danneggino o lo uccidano, piuttosto che migliorare il suo benessere. Questo è ciò che le cure mediche sono diventate.
I medici si lamentano di tutto questo, ma senza un'analisi delle forze che li spingono in un angolo e a meno che essi possano offrire un modello alternativo di cura, queste lamentele risultano inutili. Attribuire la responsabilità all'industria farmaceutica senza indicare con esattezza ciò che causa, oltre a realizzare maggiori profitti di quanto a qualcuno possa piacere, vuol dire semplicemente cercare un capro espiatorio. Questi capri espiatori, potremmo chiederci, stanno facendo qualcosa di diverso dal lamentarsi? Alla fine del capitolo 2 sarà chiaro che le attuali leggi sui brevetti e le norme sull'obbligo di ricetta medica potrebbero di fatto sollevare molte delle nostre difficoltà più in superficie – ma ci sono ancora medici o altri che si sforzano di cambiare queste norme? Alla fine del capitolo 4, sarà chiaro che il mancato accesso ai risultati ottenuti nelle sperimentazioni cliniche costituisce una seria violazione delle norme scientifiche, ma apparirà meno chiaro il fatto che esistano medici che prendono posizione contro questa violazione.
Tutti questi problemi vengono messi a fuoco nel capitolo 7, in una descrizione di un paziente danneggiato dagli effetti collaterali di un trattamento. Qui potremo vedere in maniera più chiara la linea divisoria tra quello che la medicina è stata nella sua epoca d'oro e quello che rischia di diventare. Sulla base della “evidenza scientifica” – gli articoli pubblicati che riportano i risultati delle sperimentazioni controllate – può sembrare che il nostro medico non abbia quasi nessuna opzione razionale tranne quella di negare che il trattamento prescritto possa averci causato dei problemi. Non è disponibile alcun approccio basato sulle prove scientifiche per determinare se i trattamenti hanno causato danni a un paziente o che cosa fare nel caso in cui ciò avvenga. Perché ciò non è mai accaduto?
Evitare il Pharmageddon non è principalmente una questione di contenere i crescenti costi dei sistemi sanitari – sebbene ciò sia importante. È più una questione legata alla ricostruzione di condizioni per cui i medici possano diagnosticare ciò che ci affligge e di conseguenza offrirci i trattamenti appropriati. Questo tipo di cura non è qualcosa di intangibile o qualcosa che rassomiglia agli attuali sforzi di creare professionisti della salute che sorridono di più, che confortano i loro pazienti augurandogli una piacevole giornata o che compiano altri sforzi per erogare un “buon servizio”. Quando si considerano i danni causati da un trattamento farmacologico, è sempre più richiesto che le persone nelle quali riponiamo la nostra fiducia per essere curati abbiano da offrire un “buon servizio”.
Mentre in superficie sembra che ora medici e altri operatori della salute siano incoraggiati a diventare i nostri partner, in realtà l'impulso di prendersi amorevolmente cura di noi quando siamo afflitti da qualche malattia – in modo tale da comprendere del tutto il nostro potenziale – è ostacolato dal processo che rende invisibili i problemi indotti dal trattamento. Di conseguenza, viene sprecato quel grande serbatoio di idealismo e di buona volontà che coloro che operano nel campo della salute mettono quotidianamente nel proprio lavoro. E nella misura in cui la principale ricchezza di una nazione risiede nella migliore capacità di una popolazione di svolgere il proprio lavoro, in misura maggiore che nel petrolio o in altre risorse del sottosuolo, i nostri paesi e le nostre economie vengono di conseguenza impoveriti.
C'è un cambiamento di clima che sta prendendo piede nella medicina moderna, ben diverso dalla perdita di prospettiva lamentata da Worcester e dalle generazioni di medici seguenti. Stare alle prese con i fattori responsabili di questo mutamento climatico può riguardare tanto i cambiamenti di norme quanto la legge sui brevetti, l'obbligo di ricetta medica per i farmaci, così come l'accesso ai risultati delle sperimentazioni cliniche. Ma è anche necessario che i medici e i pazienti agiscano sul piano individuale. Di fronte a problemi come il global warming, azioni intraprese individualmente possono sembrare inutili, ma nella medicina come nei cambiamenti climatici, sommandosi l'una all'altra possono davvero fare la differenza. Pharmageddon è parte di questo sforzo. È scritto nella convinzione che quasi ogni dottore praticante e ogni persona che vi si rivolga, quando i problemi indicati verranno analizzati, saranno consapevoli del crescente impoverimento delle cure cliniche e che, tutti insieme, possiamo fare la differenza.
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Scritto da Vincenzo il 12/07/2020