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Un libro per colpire i bombardamenti, svelare la Grande Bugia in tempo, per fermare l’ennesima guerra “umanitaria”. La situazione della Siria è drammatica. Il paese si dibatte in una cruenta guerra civile, oggetto di spietati attacchi da parte di nemici interni ed esterni. La cosiddetta “rivolta siriana” fa in realtà parte di una cinica strategia statunitense che si serve di provocatori, mercenari, fanatici fondamentalisti e ONG corrotte.
Essi sono decisi a colpire uno stato arabo indipendente, dove la ricchezza generata dal petrolio viene impiegata per finanziare lo stato sociale, proprio come avveniva in Libia prima che questa fosse annientata con analoghe modalità. I paesi vicini partecipano al massacro, come sciacalli e iene che strisciano ai piedi del leone americano.
“Obiettivo Siria” è un ammonimento sul modo di operare dell’onnipotente “Impero del Dollaro”. La trama americana, finanziata dai “petrodollari” delle monarchie del Golfo, attiva la tattica delle “counter-gang”: terroristi – mercenari e irregolari, la “legione straniera” della CIA – che fanno saltare in aria edifici e massacrano gli innocenti, per poi addossare le responsabilità della carneficina al governo preso di mira.
ONG come NED – National Endowment for Democracy – incoraggiano gli “attivisti”, i cui leader sono ambiziosi sociopatici, intenti ad aggiudicarsi avidamente una parte delle spoglie dello Stato abbattuto. I mezzi d’informazione credono alla Grande Bugia e la celebrano propagandisticamente, creando una realtà falsificata attraverso cui non è possibile farsi una opinione critica, libera e indipendente.
“Obiettivo Siria” mostra come queste guerre siano architettate attraverso la strumentalizzazione degli istinti più nobili dell’animo umano, tramite l’inganno di coloro che altrimenti tenderebbero a contrastare l’intervento armato, manipolandoli al servizio dell’assassinio di massa e della dittatura globale del potere economico.
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- Nota sull'opera
- Prefazione di Franco Cardini
- Il puzzle siriano
- Giochi di potere
- "Primavera" o disgregazione del mondo arabo?
- Introduzione
- Le premesse
- La cosiddetta "Primavera Araba"
- La cronologia: 2008-2010, preparazione del campo di battaglia
- 2011: l'anno dell'inganno
- Rivolta e insurrezione in Siria
- L'architettura dell'insorgenza
- Gestione della percezione nella guerra psicologica attraverso bugie, disinformazione, montature e travisamenti
- La prospettiva di una guerra regionale
- Fasi della guerra non convenzionale
- Struttura di un movimento di insorgenza o di resistenza
- Giustizia poetica nel Golfo Persico
- La Turchia e la questione curda
- Israele e la strada verso la Persia
- Sanzioni
- Invasione
- Un fronte unito contro l'Iran
- La costruzione delle provocazioni
- Rivoluzione colorata finanziata dall'estero
- Assistere le rivoluzioni popolari con le forze armate
- Terrorismo sponsorizzato dagli Stati Uniti
- Mujahedin-e Khalq e l'insorgenza armata
- Potenziali alleati etnici
- Fomentare un colpo di stato militare
- La posizione cino-russa
- Conclusioni
- Appendice 1 - Siria: la testimonianza di un sacerdote
- Appendice 2 - Cos'è Amnesty International?
- Il finanziamento di Amnesty International
- La leadership di Amnesty International
- Amnesty International tradisce la reale promozione dei diritti umani
- Appendice 3 – La cronaca occidentale sulla Siria sta andando in pezzi
- Appendice 4 – La Turchia tenta di provocare la guerra alla Siria
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Questi avvenimenti sono stati censurati dai media appartenenti al mainstream, i quali proseguono senza tregua il loro sforzo, finalizzato a indurre l’opinione pubblica di tutto il mondo a credere che gli eventi siriani siano una nuova “rivoluzione del popolo”, mentre i fatti dimostrano chiaramente che si tratta di un altro sanguinoso “cambio di regime” incentivato dal Governo americano.
Questa non dovrebbe essere una sorpresa. La storia ricorda che la CIA ha orchestrato innumerevoli insurrezioni violente in diversi Paesi del mondo, armando bande di mercenari e “squadroni della morte”, con l’obiettivo di rovesciare i governi nazionali ed espandere la dominazione americana in ogni angolo del globo.
Nel 1988, l’allora comandante del locale distaccamento John Stockwell, che portò avanti la guerra segreta in Angola, valutò che la CIA avesse organizzato approssimativamente 3000 operazioni maggiori e 10.000 operazioni minori di questa tipologia, che provocarono la morte di più di 6 milioni di persone. Citato anche nel libro Assuefatto alla guerra, egli scrisse:
Ora abbiamo una massiccia documentazione su quella che viene chiamata “la guerra segreta della CIA”. Non abbiamo bisogno di immaginare, né di supporre. È stata oggetto d’indagine da parte della Commissione investigativa Church, nel 1975, e questo ci ha permesso di effettuare una prima, vera analisi in profondità di questa struttura. Il senatore Church disse anche di avere scoperto che, nei 14 anni precedenti la sua indagine, erano state svolte 900 operazioni maggiori e 3000 minori. Se moltiplichiamo questo dato per i 40 anni in cui è stata operativa la CIA, possiamo concludere che il computo totale ammonta a circa 3000 operazioni maggiori e 10.000 minori. Ciascuna di esse illegale; ciascuna di esse con effetti devastanti sulle vite e sulla società di altre persone e molte di esse più cruente e sanguinose di quanto si possa immaginare.
Ogni guerra occulta costituisce una violazione della Costituzione americana, la quale esige che le azioni militari vengano dichiarate dal Congresso e non attuate da un corpo segreto e non eletto. Per finanziare un business su così vasta scala, bisogna avere il controllo del traffico globale di droga, che è presumibilmente la causa reale della guerra in Afghanistan.
La stima di Stockwell non include le operazioni NATO-Gladio in Europa; inoltre, aggiungendo altri 15 anni che hanno visto la CIA al lavoro, probabilmente con un ritmo crescente e con obiettivi sempre più globali, le operazioni segrete saranno oramai più di 20.000, un numero sbalorditivo. Questo dato, in fondo, non dovrebbe destare grande sorpresa nei lettori se, come gli indizi fanno pensare, si identifica la crisi siriana come un’altra operazione della CIA.
Nel corso di un’intervista, rilasciata il 2 marzo del 2007 a Amy Goodman, il generale americano Wesley Clark ha spiegato che l’amministrazione Bush aveva programmato di “far fuori” sette Paesi in cinque anni: Iraq, Siria, Libano, Somalia, Sudan, Iran e Libia. La Siria è sempre stata sulla “lista delle faccende da sbrigare” di Israele, proprio perché è l’ultimo Stato arabo indipendente, secolarizzato e multietnico in Medio Oriente, fedele alleato dell’Iran e, in quanto tale, un ostacolo per l’egemonia israeliana sulla regione.
Ma quella siriana non è una dittatura? Anche questo fa parte del grande gioco del NIGYSOB (Now I’ve Got You you Son Of a Bitch, ovvero “Ora ti ho in pugno, figlio di puttana”), in virtù del quale i governi arabi che rifiutano di sottomettersi al dominio occidentale e israeliano vengono tormentati e destabilizzati di continuo, fino a essere costretti, se vogliono sopravvivere, a sviluppare un apparato di sicurezza che, per un verso o per l’altro, risulta totalitario. A questo punto, quando fa loro più comodo, le potenze occidentali e Israele possono evidenziare, con toni accusatori, la mancanza di “libertà” all’interno delle nazioni prese di mira e avviare il processo di rovesciamento del Governo. Basti pensare a come viene additato il presidente venezuelano Hugo Chavez, per avere un esempio di come venga praticato questo “gioco” dalle forze occidentali.
Sino a oggi, la “rivoluzione” siriana è stata una copia carbone della maggior parte dei “cambi di regime” incoraggiati dalla CIA negli ultimi sessant’anni: mercenari e “squadroni della morte” importati nel Paese per “accendere la miccia”, seguiti da una campagna di bombardamenti al momento opportuno. Questo è esattamente ciò che è accaduto in Libia, con britannici, americani e israeliani che hanno coordinato le loro risorse e condiviso le dotazioni costituite dai gruppi di combattenti di Al Qaeda reclutati nel corso degli anni. Diversi leader della ribellione contro la Libia sono ora attivi in Siria, come testimoniato dal giornalista spagnolo Daniel Iriarte. Questi ex terroristi islamici, convertiti in combattenti per la libertà sotto l’egida della NATO, non sono altro che sicari senza scrupoli, pronti a combattere per qualsiasi causa fintanto che ci sarà qualcuno disposto a pagare loro centinaia di migliaia di dollari.
Nell’aprile del 2011, la televisione di Stato siriana ha trasmesso le testimonianze di tre uomini, arrestati perché sospettati di avere attaccato dei civili e le Forze di sicurezza siriane. Nel corso di un programma registrato, Anas al Kanj, che si è presentato come capo del “gruppo armato terrorista”, avrebbe ammesso di avere ricevuto «armi e denaro » da un membro della bandita Fratellanza Musulmana della Siria.
Kanj ha riferito che gli era stato dato il compito di «incitare la popolazione a protestare, in particolare all’esterno della moschea Umayyad di Damasco» e nelle città chiave della ribellione – Daraa, Latakia e Banias – allo scopo di «fomentare il malcontento per rovesciare il regime e portare a termine atti di sabotaggio». L’agenzia France Presse, citando il quotidiano siriano Ath-Thawra, ha riportato che Kanj, in base alle istruzioni ricevute, doveva «aprire il fuoco sui manifestanti per seminare il panico e indurre la popolazione a credere che fossero le Forze di sicurezza a sparare sulla gente».
Il piano era quello di spingere il popolo e le autorità a farsi la guerra, sbandierando nel frattempo, grazie ai media globali, la brutale repressione delle proteste da parte del regime. Questa testimonianza è molto interessante, perché coglie un paio di passaggi fondamentali della dottrina di guerra non convenzionale del Pentagono, che esamineremo dettagliatamente nel terzo capitolo. A seguire, una panoramica sulla strategia di gioco attuata in Siria:
- viene fondata una ONG, per creare un clima di protesta nel Paese preso di mira;
- alcuni provocatori organizzano delle manifestazioni, per poi sparare sui dimostranti e sulle Forze di sicurezza, allo scopo di alimentare le violenze;
- dei video artefatti e manipolati creano l’illusione della repressione da parte del regime;
- i mass media ripetono senza sosta la Grande Bugia che il leader del Paese è un brutale dittatore;
- si procede quindi all’invasione delle città di confine con forze speciali e “squadre della morte” (gli psicopatici di Al Qaeda, la “legione straniera” della CIA), fanatici e mercenari;
- si fomenta la guerra civile sulla base delle divisioni etniche e si fabbricano i pretesti per un intervento militare da parte delle Nazioni Unite o della NATO;
- il Paese subisce una regressione all’età della pietra, per poter essere conquistato e comandato dai terroristi islamici, i pupazzi della NATO;
- il socialismo arabo e il governo popolare vengono sradicati e rimpiazzati da una cricca assoggettata a Wall Street e ai banchieri di Londra;
- le multinazionali americane firmano contratti miliardari per la “ricostruzione” e la “sicurezza”, conseguendo guadagni astronomici grazie alla rovina portata dalla guerra;
- il Libano, la Palestina, l’Iraq e l’Iran vengono isolati e viene data carta bianca a Israele per il controllo del Medio Oriente.
Nel dicembre del 2011, in un post comparso sul suo sito internet, la turco-americana Sidel Edmonds, già traduttrice e informatrice dell’FBI, ha dichiarato:
Gruppi militari stranieri, sembra diverse centinaia di individui, hanno cominciato a distribuirsi nella Giordania settentrionale, nei pressi dei villaggi della città di Al-Mafraq, prossima al confine giordano-siriano. Stando alle dichiarazioni di un ufficiale militare giordano, il quale ha chiesto di rimanere anonimo, nei due giorni passati centinaia di soldati che parlano lingue diverse dall’arabo sono stati visti fare la spola, su veicoli militari, fra la base aerea Re Hussein di Al-Mafraq – che dista 10 km dal confine siriano – e i dintorni dei villaggi giordani adiacenti al confine.
Nel gennaio del 2012, il sito britannico “Elite UK Forces” ha scritto che «ci sono voci di corridoio sempre più insistenti, secondo cui le Forze speciali britanniche stanno in qualche modo assistendo i gruppi allineati contro il regime siriano».
L’ambasciatore americano in Siria, in carica dal 2010 fino alla chiusura dell’ambasciata di Damasco, era Robert Stephen Ford. Prima di essere inviato in Siria, Ford era consigliere politico presso l’ambasciata americana di Baghdad sotto John Negroponte, ai tempi collegato in maniera infamante alle “squadre della morte” in Iraq. Secondo quanto riporta Wikipedia, «l’ex funzionario della CIA Michael Sheuer ha dichiarato che Ford, prima di essere rimosso, ha viaggiato per il Paese [la Siria; N.d.A.] incitando la gente a rovesciare il governo».
La “rivoluzione” siriana vera e propria ha preso il via nel marzo del 2011, quando sono scoppiati degli scontri nella città relativamente piccola di Daraa, sul confine giordano, e non in grossi centri come Damasco o Homs. Da allora, i media del mainstream hanno sistematicamente alterato le proporzioni delle manifestazioni antigovernative, basandosi su resoconti di parte per il conteggio delle vittime. Per esempio, quasi tutti i primi rapporti sugli scontri di marzo a Daraa facevano riferimento ad attacchi della polizia a dimostranti antigovernativi; eppure, altri dati stabilivano che vi erano stati più morti tra i poliziotti che tra i contestatori. Allora chi, esattamente, in una presunta “manifestazione pacifica”, è stato capace di sparare a sette agenti, uccidendoli? E cosa, esattamente, ci si aspettava che facesse, in risposta, il governo siriano? Dopo avere visto in quale modo la polizia statunitense tratta i manifestanti realmente pacifici – per esempio, quelli appartenenti al movimento Occupy Wall Street – possiamo solo immaginare come reagirebbe il governo americano, se le sue Forze dell’ordine venissero bersagliate dai manifestanti.
Nel giugno del 2011, i mezzi d’informazione statali siriani hanno comunicato che almeno 120 membri delle Forze di sicurezza del Paese sono stati uccisi, in un conflitto con quelle che vengono chiamate “organizzazioni armate”. Secondo quanto riportato da Deborah Amos, della NPR, «la televisione di Stato siriana ha descritto una cruenta battaglia nella città settentrionale di Jisr al-Shughour, vicino al confine turco. Sempre secondo la stessa fonte, gruppi dotati di armi automatiche hanno attaccato le Forze di sicurezza e aperto il fuoco contro degli edifici governativi. Durante la trasmissione del telegiornale della sera, un cittadino disperato ha telefonato chiedendo al Governo di salvare la città».
Si noti che le notizie riguardanti gli scontri più seri provengono dalle città di confine e questo è indicativo delle incursioni, nel nord del Paese, da parte di gruppi armati provenienti dalla Turchia e, nel sud, da parte di altri gruppi armati provenienti dalla Giordania, oltre che, naturalmente, dall’Iraq, sotto controllo americano, nella zona orientale. In effetti, i principali “centri di instabilità”, come vengono chiamati, sono Daraa, vicino alla Giordania, Talkalakh, Homs, Talbiseh e Al-Rastan, vicino al Libano, e Jisr ash-Shugur, vicino alla Turchia; sono tutti collocati lungo i confini della Siria. Nel novembre del 2011, Albawaba ha riportato la notizia che 600 combattenti erano già arrivati in Siria, dalla Libia, per supportare il nascente “Esercito di liberazione siriano”.
Poche settimane dopo l’inizio della sollevazione in Siria incoraggiata dalla CIA, il governo siriano ha espulso dal Paese la maggior parte dei giornalisti stranieri e ha cominciato a controllare rigidamente le attività di quelli rimasti. Secondo il metro di giudizio dei media occidentali – l’arma di propaganda dei neocolonialisti – questa è stata una reazione incomprensibile. Sfortunatamente, il governo siriano sembra avere sottovalutato il grado di infiltrazione della CIA nel Paese.
Essendo le possibilità di accesso diretto agli eventi che hanno luogo in Siria limitate o nulle, la maggior parte dei resoconti dei media occidentali si basa sulle dichiarazioni di anonimi “attivisti dell’opposizione” – che, francamente, potrebbero essere chiunque – e di un’organizzazione, che si fa chiamare LCC, “Comitato Coordinatore Locale della Siria”, e asserisce di rappresentare i «comitati locali dei villaggi e delle città di tutta la Siria, che si incontrano, pianificano e organizzano eventi sul territorio». Abbastanza stranamente, i siti web associati al Comitato sono localizzati in Germania e sono di proprietà di una persona chiamata Andreas Bertsch. È stato il “Comitato Coordinatore Locale della Siria” a diffondere per primo la storia fasulla che il personaggio inventato di Amina, la “ragazza omosessuale proveniente da Damasco”, era stato arrestato dalla polizia siriana.
Un video report pubblicato da RT.com mostra in che modo possono essere fabbricate di sana pianta delle notizie riguardanti la severa repressione attuata dal governo siriano:
Uomini armati sono venuti ad avvisare che avrebbe avuto luogo un attacco da parte dell’esercito e della marina contro la città di Latakia. Duemila persone hanno abbandonato la zona, e sono ritornate un paio di giorni dopo, arrabbiate per la bugia che era stata raccontata loro: non c’era stato, infatti, alcun attacco. Questa intimidazione è avvenuta il giorno dopo una grande manifestazione pro Assad*.
L’attacco non è mai avvenuto, ma questo i media non l’hanno detto. Più e più volte gli organi di informazione e il Segretario di Stato americano Hillary Clinton sono intervenuti per condannare il “massacro perpetrato dal governo siriano”, prima che il polverone si placasse e dai fatti emergesse che l’azione criminale era stata commessa dalle squadre di mercenari salafiti al soldo della NATO o che si era trattato di un acceso scontro fra fazioni rivali.
In entrambi i casi, risulta che l’esercito siriano abbia fatto il proprio dovere, proteggendo la popolazione, ma naturalmente la rettifica non è stata comunicata dai media e mai lo sarà. La Siria si è resa conto che l’allontanamento dei giornalisti occidentali è stato un grosso errore e ha revocato il provvedimento, ma, con il campo di battaglia già preparato per il conflitto, questo non sarà di grande aiuto nella guerra dei media.
Ciò con cui abbiamo a che fare, qui, è una tecnica, nota nei circoli militari come “guerra psicologica”: una strategia mirata a influenzare le emozioni, il modo di ragionare e i comportamenti dell’opinione pubblica, generalmente servendosi di cose inventate e presentate come verità.
In cima alla lista delle priorità della CIA per il “cambio di regime” in Siria – così com’era avvenuto in occasione delle invasioni criminali di Afghanistan, Iraq e Libia – c’è la creazione di un embrionale governo in esilio siriano, costituito da conservatori e/o truffatori pregiudicati. Nella prima parte del 2012, è stato creato il Consiglio Nazionale Siriano, con quartier generale in Turchia. Per avere un’idea dell’orientamento politico di questo organo, basta leggere le dichiarazioni del suo responsabile Burhan Ghalioun, un professore francese di sociologia politica e potenziale futuro presidente siriano. Il 2 dicembre del 2011, Ghalioun ha annunciato che, qualora dovesse assumere il governo della Siria, il suo regime «interromperebbe le relazioni militari con l’Iran, taglierebbe i rifornimenti di armi a Hezbollah e Hamas e allaccerebbe un legame con Israele».Questa dichiarazione d’intenti ha l’obiettivo di far sì che Israele sia più motivato e intensifichi il proprio sostegno alle operazioni volte a spodestare Assad. Con un governo filoisraeliano e filoamericano in Siria, l’apporto decisivo dell’Iran a Hezbollah e ai Palestinesi verrebbe meno, lasciando Israele libero di attuare la propria “soluzione finale” per la questione araba.
George Galloway ha fatto notare che fra i leader dell’opposizione supportati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita vi sono dei personaggi, i quali, durante il periodo in cui ricoprivano importanti cariche in Siria, sotto Hafez al-Assad, si sono resi responsabili di crimini contro l’umanità e dell’appropriazione indebita di ingenti quantità di denaro: si tratta degli espatriati Rifaat al-Assad e Abdul Halim Khaddam. Ancora una volta si può notare il collegamento fra l’operazione Iraqi Freedom e questa corrotta creatura della CIA, Ahmed Chalabi. I casi dell’Iraq e della Libia rappresentano gli esempi più lampanti della crudeltà dell’imperialismo americano che, nascosto dietro al paravento della “costruzione della nazione”, devasta e saccheggia dei Paesi già altamente progrediti, mandandoli in rovina.
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Leggi in anteprima la prefazione del libro Obiettivo Siria
Credo che le incaute speranze e gli ancor più incauti entusiasmi per le cosiddette "primavere arabe" si siano ormai volatilizzati, soprattutto in seguito alla vicenda che ha coinvolto Gheddafi in Libia. Gheddafi è stato un tiranno a lungo tollerato e perfino adulato dagli occidentali, finché questi non hanno cominciato ad accorgersi che il decisivo intervento della NATO contro di lui si era concretizzato dal momento in cui egli aveva cominciato a intralciare gli interessi francesi e britannici in Libia, opponendosi contemporaneamente alle speculazioni di alcune multinazionali nei lucrosi campi dell'acqua e della telefonia nel continente africano.
Quelle "primavere" erano state tacitamente e brutalmente soffocate nei Paesi della penisola arabica, alcuni governi dei quali - e gli organismi mediatici che essi finanziano - sostengono invece decisamente i gruppi fondamentalisti, che hanno animato, se non addirittura egemonizzato, altrove la rivolta.
Infine - a parte l'iniziale "caso" tunisino, che aveva forse preso in contropiede sia i governi che gli imprenditori occidentali - la rivolta si è invariabilmente indirizzata contro i Paesi musulmani retti da quei regimi che noi, impropriamente, definivamo "laici". Nemmeno uno dei ricchi e feroci tirannelli degli emirati, che il petrolio e il turismo hanno ormai reso arci-opulenti e che sono interlocutori preziosi delle banche e delle lobby occidentali, è stato rovesciato, mentre, fra i regimi arabi "laici", quello dei militari algerini e rimasto indisturbato nonostante il responso negativo delle urne'.
Quanto alla Libia, i tragici fatti di Bengasi del 12 settembre scorso sono piuttosto eloquenti e gettano un'ombra inquietante sia sulla leggerezza con la quale in passato, pur di rovesciare Gheddafi, si sono sostenuti i gruppi fondamentalisti, sia sul trend statunitense degli ultimi mesi di ricreare l'atmosfera da luna di miele tra gli USA e i fondamentalisti sunniti dell'Iraq, dell'Iran, del Pakistan e dell'Afghanistan.
Il puzzle siriano
Questa premessa è indispensabile, per aiutarci a osservare in modo più obiettivo e ragionevole ciò che sta accadendo proprio ora in un Paese-chiave del vicino Oriente: la Siria.
Già, la Siria: un grande Paese, con una grande civiltà. Storicamente, l'area, che già nell'antichità era una delle più civili e popolose al mondo - con "culture di villaggio" fin dal VII millennio a.C. e fiorenti centri urbani, come Ugarit e Mari, dal III a.C. - corrispondeva al territorio oggi occupato dalla Siria, da Israele, dalla Giordania e dal Libano. Si trattava di un'immensa area di più di 310.000 km, in gran parte desertica, ma resa rigogliosa dai corsi dell'Eufrate, dell'Oronte e del Giordano. L'area coincideva, pertanto, con gran parte della cosiddetta "mezzaluna fertile", la fascia ubertosa e popolata attigua a quei grandi fiumi.
La Siria di oggi è il risultato della provincia dipendente dal governatorato di Adana creata dall'Impero ottomano, che fu occupata dalle Truppe francesi nel 1919 in seguito alla violazione degli accordi presi con le popolazioni arabe locali. Dopo oltre un quarto di secolo di dure lotte, nel 1946 fu conquistata l'indipendenza e nacque così la Repubblica Araba di Siria: 185.180 km in gran parte desertici, abitati da una popolazione di oltre 22 milioni di abitanti in buona parte concentrata nelle grandi città di Damasco, Aleppo e Homs.
Dopo l'effimera unione con l'Egitto nella Repubblica Araba Unita, dal 1963 lo Stato siriano è dominato dal regime monopartitico del partito Baalh ("rinascita"), originariamente a tendenza nazionalista e socialista nasseriana. Dal 1970, il potere è prima nelle mani della famiglia del generale Hafezel-Assad, e poi del figlio Bashar, il cui ruolo presidenziale è stato confermato nel 2007 da un referendum.
Hafezel-Assad era un uomo duro (tristemente celebre la repressione dei ribelli sunniti a Homs) e le accuse, che da parte internazionale pesano sul governo siriano, riguardano la violazione dei diritti umani in politica interna, il costante atteggiamento favorevole all'Iran in politica estera, l'atteggiamento egemonico in Libano - culminato nel 2007 nell'assassinio del presidente libanese, il sunnita Hariri - e l'appoggio al partito Hizbollab.
Sotto altri aspetti, tuttavia, gli osservatori internazionali sono finora stati concordi nel sottolineare alcuni caratteri positivi del governo di Bashar, che non ha ereditato la spietatezza paterna. Lo Stato sociale siriano si è distinto per il buon funzionamento, per le istituzioni e le strutture pubbliche e per il sistema di uvifere, nettamente migliore rispetto a quello della maggior parte dei Paesi del vicino Oriente.
Giochi di potere
Le sanzioni, imposte dal 2004 alla Siria sulla base di presunte e mai ben precisate connivenze con il "terrorismo islamico", finora erano state applicate con mano leggera e il clima diplomatico, anche rispetto agli USA, nel 2009 era nettamente migliorato. Le cose sono andate diversamente con Israele, su cui pesano il contenzioso per il Golan (la regione siriana in parte occupala da Israele, nel 1967, come conseguenza della crisi arabo-israeliana) e i postumi del raid aereo israeliano del 2007 contro alcune presunte installazioni nucleari siriane (la cui esistenza non è mai stata comprovata).
Per una più corretta comprensione della situazione della Siria di oggi, bisogna valutare anzitutto quattro cose:
- dagli anni Sessanta, la Siria è stata lo più costante, sicuro e valida interlocutrice-alleata, nei vicino Oriente, prima dell'URSS e poi della Russia;
- il governo di Assad, di famiglia alowita, controlla un Paese, che è alt'80% di osservanza sunnita (gli alawiti, non più dell' 11%, costituiscono piuttosto un gruppo "sciita-ereticale");
- dal 1979 è sempre stato in buoni rapporti con il governo della repubblica islamica dell'Iran, Paese sciita;
- infine, permane l'occupazione israeliana del Golan, con relativo sfruttamento delle sue risorse idriche, nonostante le risoluzioni dell'ONU al riguardo.
A margine di questo, va tenuta in conto anche l'annosa tensione tra la Siria e la Turchia, dovuta a questioni sia etno-religiose che confinarie e idriche - le sorgenti dell'Eufrate sono in territorio turco - e alla recente scoperta di giacimenti sottomarini di gas nelle acque territoriali turche, cipriote, libanesi e siriane.
Inoltre, soprattutto in questo momento, bisogna considerare che, visti anche i "venti di guerra" che sembrano soffiare tanto dai Paesi arabi e sunniti del Golfo quanto da Israele contro l'Iran, l'eliminazione del governo baathista siriano isolerebbe ulteriormente il governo iraniano e indebolirebbe l'influenza della Russia nel Vicino Oriente. Da qui, l'appoggio dei Paesi arabi sunniti (alcuni dei quali - come per esempio il Bahrein, il Qatar e l'Oman - hanno al loro interno delle minoranze sciite, nei confronti delle quali seguono una linea politica ferocemente repressiva) al cosiddetto "esercito di liberazione" siriano, che è in realtà una complessa galassia di gruppi comprendente anche molli volontari non siriani, impegnati nella jihnd sunnita.
Uno degli aspetti più importanti da tenere presente, infine, è che gli alawiti, nella cui dottrina musulmana sono presenti anche elementi di origine cristiana e mazdaica, hanno sempre avuto tutto l'interesse a mantenere in Siria un clima costituzionale, che noi definiremmo "laico". Temendo l'egemonia sunnita, gli alawiti hanno fraternizzato con i cristiani siriani - i quali, mettendo insieme le tre principali Chiese, rappresentano il 9% della popolazione, cioè circa due milioni di persone - e con le minoranze maronite, armene, e "caldee" che, pur avendo ormai aderito alla Chiesa cattolica, hanno mantenuto i loro riti liturgici.
Il patriarca cristiano melkita Gregorio III Laham è più volte intervenuto - in modo autorevole, ma restando inascoltato dai medio - sull'attuale situazione, per sottolineare che, pur non essendo i cristiani favorevoli al regime di Assad, fino ad oggi la costituzione e il governo di Damasco abbiano garantito libertà e tutela alle Chiese cristiane e che, invece, le Chiese cattoliche hanno motivo di temere che, nel fronte ribelle, possano prevalere i sunniti fondamentalisti, i quali hanno aumentato le rappresaglie anticristiane; il patriarca ha inoltre denunciato le forti presenze e ingerenze straniere e occidentali all'interno del fronte sunnita. Insomma, una Siria 2012 che comincia stranamente a somigliare, per certi versi, alla Spagna 1936.
Le Chiese cristiane si sono in genere dette favorevoli al piano di pace, proposto da Kofi Annan a nome dell'ONU e dalla lega Araba e appoggiato dai movimenti siriani non-violenti come l'interreligioso Mussatoli. Analoghe posizioni sono, nella sostanza, sostenute da uno dei più seri e intelligenti conoscitori italiani della questione siriana, il gesuita Paolo DalI'Oglio, che pure è stato espulso dalla Siria, nel giugno del 2012, dopo esservi vissuto per trent'anni e avervi fondato la bella comunità di Deir Mar Musa. DalI'Oglio è stato espulso perché, fin dall'inizio del movimento che noi chiamiamo "Primavera Araba", ha parlato apertamente sia della spontaneità e della sincerità dei tanti cittadini (soprattutto giovani), che chiedono libertà e un futuro migliore, sia delle menzogne e delle violenze del governo; egli ha anche sottolineato che, messi alle strette, gli alawiti ancora al governo (che rappresentano un paio di milioni di persone) potrebbero puntare sulla resurrezione dello Stato autonomo alawita - insediatosi nella zona attorno a Lattakya, nel sud-ovest del Paese-che era stato prima riconosciuto dalla Francia nel 1922 e poi eliminato nel 1946, alla fine del mandato francese. Dall'Oglio, inoltre, sostiene che Assad, dopo avere visto fallire il suo primitivo progetto di semplice repressione del movimento ribelle, ormai, messo alle strette, ha tutto l'interesse a prolungare la resistenza, andando però a rafforzare, sul fronte ribelle, la pericolosa componente sunnita fondamentalista.
La posizione di DalI'Oglio, tuttavia, sembra sottovalutare due dati effettivi: primo, la forza e l'intensità con cui i Paesi arabi sunniti si sono impegnati per "islamizzare" la rivolta contro Assad; secondo, il fatto che, per accelerare al massimo la soluzione del conflitto, occorrerebbe un accordo internazionale e non l'invio di una Forza ONU a sostegno dei ribelli - come è stato fatto in Libia, con le conseguenze che tutti conosciamo - al quale, per il momento, si oppone la Russia (appoggiata da Cina, ma anche da Brasile, India e Sudafrica) con il suo veto al Consiglio di Sicurezza. La Russia chiede che si conducano le trattative, tenendo presenti anche le posizioni del governo di Damasco e non facendo di esso un pregiudiziale capro espiatorio; però le posizioni russe vengono presentate dai media come ispirate da una diplomazia che, per ragioni legale alla geopolitica e al petrolio, è considerata "unilateralmente" filoiraniana.
In modo analogo, è passata sotto silenzio la lettera con la quale Kofi Annan, l'inviato speciale delle Nazioni Unite, ha denunciato il fatto che «si è insediata in Siria una forza terroristica, ostile a ogni mediazione" e ha smascherato la speculazione mediatica sul famoso massacro di Bilia, precipitosamente - e, a quel che pare, ingiustamente - attribuito alle forze governative.
Ora, sono proprio queste continue forzature interpretative a scoprire una parte importante della realtà. Qui non si tratta di isterico complottismo antiamericano, si tratta della più che ragionevole ipotesi che, alla base dell'impegno teso a eliminare il governo baathista, ci sia la volontà, da parte di alcuni ambienti statunitensi e israeliani, di portare un attacco militare diretto contro le vere o supposte installazioni nucleari iraniane. E anche questo è un tipo di isterismo complottista, uguale e contrario al complottismo antiamericano, ma molto più forte politicamente e militarmente, e potrebbe anche prevalere, se i repubblicani vincessero le elezioni statunitensi del prossimo novembre.
Che le cose stiano così, risulta chiaro facendo una pacata analisi di quanto è accaduto da un anno a questa parte: non a caso, il n. 1 del 2012 di Limes, "Protocollo Iran", già mesi fa collegava correttamente il problema dell'atomica iraniana ("minaccia o pretesto"?) alla questione dell'estrazione e del commercio del petrolio - quindi alle tensioni arabo-iraniane nel Golfo di Hormuz, minacciato dal blocco — e alla crisi siriana, nonché alla situazione irakena, afghana e pakistana.
"Primavera" o disgregazione del mondo arabo?
L'evidenza, però, è sotto il naso di tutti: mentre, da un lato, dalla primavera del 2011 si diradavano o cessavano del tutto le notizie sulle manifestazioni - e sulle repressioni - dall'Algeria al Marocco e alla penisola arabica, dall'altro prendeva corpo il "caso" egiziano e si addomesticavano le rivolte, mettendo in evidenza quelle che servivano e facendo sparire le altre.
In questo modo, le folle che chiedevano la democrazia in Siria, così come in Libia, diventavano un argomento dell'informazione quotidiana, anche se Assad, già dai primi di novembre del 2011, aveva accettato il piano di pacificazione con l'"esercito di liberazione", proposto dalla Lega Araba. Invece che all'avvio di detto piano, si assistè a un'escalation di notizie unilaterali - garantite dalla sola autorità del Consiglio Nazionale Siriano in esilio a Istanbul, organizzazione dell'opposizione - sulle violenze governative e sulle pretese basi nucleari, nonché al successivo ritiro, alla fine del gennaio 2012, degli osservatori della Lega Araba dalla missione internazionale in Siria, in attesa delle decisioni degli altri membri. La lega Araba, ritirandosi, non trovava niente di meglio che auspicare l'invio in Siria dei "caschi blu" del ONU.
Tra gennaio e febbraio, vista l'opposizione russa e cinese alla prospettiva di un intervento armato in Siria, caldeggialo soprattutto dai francesi e dai britannici, da parte dei Paesi occidentali veniva intensificata l'attività di sostegno diplomatico e finanziario alle opposizioni', mentre al governo siriano venivano regolarmente imputale azioni -come quella di Homs, durante la quale perse la vita il giornalista francese Jacque Jacquier - che erano piuttosto frutto di attività "patriottiche" (o "terroristiche", come indubbiamente sarebbero definite in differenti contesti). Sempre ai primi di febbraio, il "portale" Debkaftle, vicino a Israele, annunciava l'invasione della Siria da parte di truppe britanniche e qatariote, mentre dalla Libia "liberata" giungeva l'auspicio che i reggimenti turchi arrivassero per primi: essendo formali da musulmani sunniti, sarebbero stati accolti meglio dei "caschi blu".
In seguito al clima internazionale così instauratosi, alla fine di gennaio la Russia annunciava il suo rifiuto di partecipare al "gruppo di contatto" sulla Siria, previsto per il febbraio successivo. Si profilava, infatti, l'eventualità che il "gruppo di contatto" appoggiasse il progetto di Hisamuddin al-Awk, un ufficiale siriano disertore in Egitto, che mirava a mettere insieme un corpo di mercenari, per spedirlo a combattere nel suo Paese. In tale situazione, il referendum indetto dal governo siriano per il 26 gennaio 2012, che prevedeva una riforma costituzionale in senso pluralistico, non solo non veniva tenuto in alcun conto, ma veniva immediatamente derubricato con noncuranza come demagogico, senza alcuna considerazione per il suo significato distensivo.
Intanto, i media occidentali davano rilievo alle noli-zie sulle "fughe all'estero" dei capitali dell'elite di governo e sulle defezioni di alcuni collaboratori di Assad, e trascuravano, come del tutto irrilevanti, le denunce alI'ONU dell'ambasciatore russo Vitaly Churkin sull'ingerenza libica nella crisi siriana e sui volontari di al-Qaida addestrali in Libia.
Il piano di pace dell'ONU venne presentato tra l'11 e il 12 aprile 2012; secondo l'Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, organizzazione dell'opposizione con sede a Istanbul, il governo siriano vi si è subilo opposto. In realtà, una delle ultime scelte del francese Sarkozy, prima di andarsene dall'Eliseo, fu tesa a vanificare il piano di pace dell'ONU per favorire invece i "corridoi umanitari, in modo da tenere in vita l'opposizione" ad Assad. La posizione francese è stata portala poi avanti dal governo Hollande, con l'appoggio concreto di fondi ed equipaggiamenti attraverso l'associazione "Amis du Peuple Syrien".
Alla fine di maggio, al suo arrivo a Damasco, Kofi Annan ha parlato di un cessate il fuoco e di una concreta disponibilità governativa, ma le diplomazie occidentali replicavano che ormai in Siria si era alla guerra civile e si formulavano ipotesi unilaterali sulla nofly zone in territorio siriano, garantita dal Qatar e dalla Turchia. Nonostante la grande abbondanza di informazioni attingibili, i principali media dell'Europa occidentale si affidavano solo alle notizie diffuse dal network «Al Jazeera» e ad alcuni commenti diffusi da Twitter, come ha fatto correttamente notare Eduardo Za rei li in un articolo comparso sul numero di luglio-agosto 2012 di Diorama.
Tutto il resto non contava. Per esempio, il 17 maggio 2012 in Siria si sono tenute le elezioni amministrative, che hanno visto un'affluenza alle urne del 51,26%, una percentuale molto alta, tenendo conto del contesto; tuttavia, i commenti al riguardo sono stati a priori: si è parlato, infatti, di "manipolazione", di "intimidazione"e di "propaganda governativa". Il 29 maggio, il Corriere della Sera - con un linguaggio, che il Minculpop (il Ministero della Cultura Popolare italiano di epoca fascista) avrebbe trovato massimalista - diffondeva la notizia che il giornalista e filosofo Bernard Henri Lévy, da Parigi, definiva «disfattismo» l'atteggiamento di tutti coloro che, a proposito della situazione siriana, esigevano prudenza e maggiori informazioni. Lévy, quindi, considerava dei disfattisti «che si sono sempre sbagliati» coloro che «la vigilia della caduta di Tripoli, prevedevano ancora un pantano». I fatti di Bengasi dell' 11-12 settembre - con l'assassinio dell'ambasciatore americano in Libia - confermano che, anche nel caso di Lévy, i cattivi profeti e i profeti cattivi coincidono sempre.
Kofi Annan ha affermato chiaramente che è impossibile invitare le parti contrapposte a un confronto costruttivo, in quanto una di esse - le "forze di liberazione" - non ha una leadership riconoscibile ed è fortemente inquinata da istanze fondamentaliste; le stesse, che si rivelano sempre più importanti in quella "nuova Libia democratica", che piace tanto a Bernard Henri Levi. Ma il sangue di un diplomatico statunitense, in seguito a una sconsiderata provocazione e a una feroce reazione, è stato sparso, in una Bengasi "liberata", dai democratici fondamentalisti libici, di nuovo alleati dell'Occidente (come lo erano in Afghanistan nei primi Anni Novanta del Novecento), non dai servi del "tiranno" di Damasco.
Si tratta di quegli stessi democratici che, appena qualche mese prima, erano stati aiutati dalla NATO a "liberarsi" di un altro tiranno... E allora, Monsieur Levi, davanti all'ipotesi che i "Caschi Blu" domani possano fare in Siria quello che ha fatto ieri la NATO in Libia, con il Suo permesso, sono un disfattista anch'io: anch'io chiedo prudenza e maggiori informazioni.
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Scritto da Vincenzo il 12/07/2020