«Dicono di essere vestite, ma non lo sono. Sono delle depravate, destinate all’inferno. Prendetele, condannatele, frustatele!» Il giovane predicatore tuona dal microfono contro Lubna e le altre donne che, in seguito a una retata, sono state condotte al suo cospetto. La loro colpa: indossare pantaloni. Che, secondo la sharia in vigore in Sudan dal 1989, sono vietati alle donne.
La pena per chi infrange la legge sono quaranta frustate. Molte delle “depravate” arrestate quella sera subiscono quell’umiliazione, che brucia più delle ferite, e se ne vanno a testa bassa. A volte, ed è cronaca recente, qualcuna muore. Lubna si batte in tribunale e sfugge alla pena.
Si rifugia in Francia, da dove continua la sua battaglia in difesa di quelle che non hanno la forza di ribellarsi a una legge iniqua. E anche di quelle che pensano davvero di meritarsi le frustate, i castighi, le restrizioni della libertà personale in nome di Allah. Ma Allah non ha mai pronunciato la parola sharia. Sono stati gli uomini a umiliare le donne con un coacervo di divieti che soffocano la libertà di metà della popolazione. Con esiti assurdi, se non fossero tragici: i pantaloni ampi che sono costati la condanna a Lubna, in Iran sono obbligatori. Sempre in nome di Allah.
Lubna vuole dire a tutte le donne che non è scritto da nessuna parte nel Corano che la donna è inferiore, che non deve lavorare o studiare, che non può portare i pantaloni. E lo fa sapendo di attirarsi un’accusa di blasfemia. Ma è giunto il momento che le donne dicano basta. E Allah è sicuramente con loro.
Scritto da giorgio il 02/02/2022