L'autore, filosofo e storico della scienza di fama internazionale, in questo testo analizza il linguaggio odierno che normalmente viene usato tra medico e paziente.
Quanti di noi si sono trovati in determinate situazioni in cui la poca chiarezza e la mancata comprensione del linguaggio medico hanno procurato più ansia e preoccupazione di quanto fosse necessario solo perché probabilmente è mancata l'umanità e l'empatia che avremmo voluto trovare?
In questo saggio viene presa in considerazione la medicina greca, analizzando due atteggiamenti fondamentali della relazione medico-paziente, chiamati per semplificare "Modello1" e "Modello2". Uno di ispirazione ippocratica, volto al rapporto umano tra medico e paziente in cui il primo si pone sullo stesso "piano" del paziente e lo tratta come tale, l'altro determinato dalla convinzione che il paziente con la sua "incompetenza" non può comprendere l'arte medica e anche il semplice porgli domande può essere fuorviante, dal momento che il paziente non ha idea della malattia che lo affligge. Quindi, da una parte, un medico quasi amico, che cura l'uomo, dall'altro un medico che cura d'imperio e tratta il sintomo o i sintomi, non certo l'uomo nella sua interezza.
Dalle relazioni cliniche di un tempo alle trattazioni dei manuali, dal linguaggio delle commedie a quello dei romanzi, dalle informazioni dei bugiardini alle oscure formule chimiche, dagli acronimi agli inglesismi, Jori non perde occasione per far toccare con mano quanta strada dobbiamo ancora percorrere affinché il medico non parli una sua lingua, ma si conformi alla trasparenza del lessico corrente, per recuperare un rapporto fondamentale anche per l'intera società, quello tra medico e paziente, due uomini che "collaborando" potranno giungere al compimento del bene sia dell'uno che dell'altro.
INDICE DEL LIBRO
Prima parte - La comunicazione medica nell'antica Grecia
1. Due modelli alternativi del rapporto medico-paziente
2. L'indagine diagnostica
2.1. Interrogare il paziente
2.2. L'irredimibile ignoranza dei malati
3. Persuadere il paziente?
3.1. Una complessa pedagogia terapeutica
3.2. Il medico «dispotico»
4. Quale modello di relazione?
4.1. Informare e «formare» il malato
4.2. Il silenzio del terapeuta
5. I due modelli antitetici e il dibattito contemporaneo
5.1. La riscoperta dell'Ippocratismo
5.2. Una persistente rigidità di ruoli
5.3. Per un nuovo umanesimo medico
Seconda Parte - Ciò che impedisce una comunicazione medica efficace
1. Le parole del «medichese»
1.1. Un lessico sui generis
1.2. L'impiego «creativo» dei verbi
1.3. Un profluvio di participi e di avverbi
1.4. L'aggettivazione sovrabbondante e stereotipata
2. Nel mare magnum dell'oscurità espressiva
2.1. Sigle e acronimi
2.2. Parole ed espressioni in altre lingue
2.2.1. Il «latinorum» del «medichese»
2.2.2. L'attuale «tracimare» degli anglicismi
3. Gli eponimi
4. Toni dominanti del linguaggio medico
4.1. La perentorietà
4.2. Il compiacimento di sé
4.3. La prudenza eccessiva
4.4. Una fredda impersonalità
4.5. Tra dire e non dire: la litote
5. Uno stile tendenzialmente elevato
Terza parte - Qualche semplice regola per esprimersi con chiarezza
1. I «quadri clinici» dei medici ippocratici
2. Per una comunicazione efficace
2.1. Periodi brevi
2.2. La partizione della frase
2.3. Preferire la coordinazione alla subordinazione
2.4. Guardarsi dal gerundio
2.5. Esemplificazioni e similitudini
2.6. Non temere le ripetizioni
3. Una straordinaria capacità descrittiva
3.1. Tre consulti seicenteschi
3.2. Descrizioni sanitarie di popolazioni
4. La potenza del linguaggio medico
4.1. Un climax travolgente
4.2. Il malato e le sue sofferenze
4.3. Tra medicina e letteratura
5. Talvolta anche il silenzio del medico è d'oro
Conclusioni
Tavola A - Aggettivi comuni più frequenti in contesti medici
Tavola B - Alcuni degli aggettivi «tecnici» più utilizzati in contesti medici
Suggerimenti bibliografici
La relazione medico paziente, argomento inesauribile nella storia della medicina, è stata esplorata da prospettive diverse, e man mano arricchita di elementi nuovi e rinnovati. Essa sostanzia la modalità, la qualità e lo stile dell'esercizio medico da un lato, e la visione della vita, la sofferenza dei pazienti e l'ansia dei medici dall'altro. Il saggio di Jori analizza l'interazione tra i due attori attraverso la qualità del linguaggio verbale, compreso l'eloquente silenzio del distintissimo dottor Dieulafoy di uno dei più celebri romanzi di Marcel Proust. Le esperienze attinte dalla letteratura scientifica o romanzata convincono l'Autore a preferire lo stile dialogico del modello ippocratico, tipizzato nel saggio come "Modello1", anziché l'autoritario, l'impositivo, privo d'interlocuzione, "paternalistico", convenzionalmente definito "Modello 2". Il primo, giustificato dal «principio di beneficialità», ha resistito fino al processo di Norimberga del 1946, quando fu soppiantato dal «principio di autonomia» con l'annessa pratica del «consenso informato»; il secondo risente del contenuto culturale di chi chiede la prestazione. La divisione in due grandi categorie ha consentito all'Autore sia la linearità e l'agilità della trattazione che la possibilità di saturarla con acute e dotte osservazioni.
Il rapporto medico paziente è in continuo dialogo con l'evoluzione del sentire sociale rispetto ai temi della vita, della morte, della salute. Da un lato segue, dall'altro favorisce i cambiamenti dei valori sociali ed etici in gioco nelle varie culture. La vivacità dell'arte medica sta nel continuo confronto con gli aspetti umani, politici, etici, individuali della società, e nel rimando alle possibilità economiche, tecnologiche e strutturali funzionali ad accogliere i pazienti e a soddisfare la domanda terapeutica: tutto questo interviene nella relazione di cura e il linguaggio si fa responsabile della corretta interpretazione degli accadimenti. La medicina è altresì potentissima nel modificare i costumi sociali. Informare la società sull'avanzamento delle possibilità tecniche accresce e aumenta la partecipazione dei cittadini, produce nuove domande di salute e avvia nuovi inesplorati stili relazionali, a volte problematici: la fattibilità comporta la traduzione nel volerlo fare; consegue l'aggiornamento degli stili di relazione e della comunicazione tra pazienti e medici, ma anche dei contenuti sanitari e delle interrelazioni ai vari livelli. Nel tempo attuale la relazione medico paziente è estesa anche alla struttura sanitaria, senza la quale non può avvenire l'incontro tra i vari protagonisti del processo di cura. L'evoluzione delle conoscenze e le nuove forme di percezione dei problemi seguono, ma anche orientano, la costruzione dei rapporti nella società e tra gli individui.
I due cardini dell'esercizio medico di ippocratica memoria – observatio et ratio – furono formulati prima delle conoscenze scientifiche dell'anatomia e fisiologia, e il medico, aiutato anche dalla tipica «patocenosi» del sito, animava i segni e i sintomi in una diagnosi giustificata dal fantasioso flusso di umori. Questo statuto epistemologico – sopravvissuto per più di ventiquattro secoli – facilitava un sostegno e una condivisione umana ben diversa rispetto a quella attuale, soverchiata dall'utile, ma altrettanto straripante e dominante uso delle tecnologie.
La medicina è in costante dialogo con la società: ne influenza il sentire e ne è modificata nel suo modo di essere. Le odierne questioni eticamente sensibili, frutto di impensabili e inarrestabili possibilità tecnologiche, hanno animato un dialogo e un sentire sociale rivolto alla realizzazione della soluzione desiderata. Il medico è chiamato ad adeguarsi. Sempre più spesso accade che sia il paziente a chiedere al medico ciò che vuole sia fatto. Anche il medico indugia e si attende dall'incerto e confuso paziente la risposta risolutiva alla domanda: «Deve essere lei a dirmi cosa vuole fatto».
La caratteristica versatilità del linguaggio è funzionale a realizzare la materia che si vuole trasferire: nomina sunt consequentia rerum. Man mano che si modificano le relazioni all'interno della società, di conseguenza cambiano i modi di porsi e i linguaggi. I due modelli che Jori ha ricostruito realizzano i diversi modi dell'incontro con l'altro, sicché la narrazione della storia sottende prospettive di etica medica. Il linguaggio ampio del "Modello 1" esprime riconoscimento e prossimità tra il medico e il paziente, favorito dall'impossibilità della techné a risolvere i problemi di salute dei pazienti: la società se ne rendeva conto, e anche i medici lo sapevano. In un'epoca in cui l'empiria macroscopica non era bastevole e i presidi terapeutici erano frutto di tentativi approssimati e non controllati, il dialogo e l'accoglienza sopperivano alla tristezza di un destino già segnato dagli irrisolvibili problemi. Il dottor Purgon del Malato immaginario di Molière si pregiava di avere «inventato» un clistere: anche se allora tale pratica poteva essere frequente, si può sospettare che la novità abbia disorientato l'ambiente familiare del paziente. Immaginiamo cosa succederebbe oggi se qualche medico decidesse di somministrare pozioni e farmaci di personale ispirazione e preparazione. La società oggi ha orientato i suoi sistemi alla pratica del «controllo» e assegna meno spazio al caso e alla libertà d'azione, diversamente che per i temi di etica che stanno per essere ricondotti alla sfera privata, auspice il periodo della post-verità che stiamo attraversando. Anche il medico «controlla»: con gli esami strumentali monitora le variazioni degli organi e il funzionamento degli apparati, e il linguaggio trasferisce i risultati oggettivi, a volte anche aridi, delle prassi.
Uno dei linguaggi che ormai non tanto recentemente si è imposto in medicina è «il linguaggio dei diritti». Il diritto a essere informati sulle condizioni cliniche e sui trattamenti che si accettano o meno passa attraverso la pratica del «consenso informato». La formulazione del «consenso informato» – anche se correttamente predisposta per rendere edotto il paziente dei vantaggi e dei rischi sottesi alle procedure che il medico consiglia – nella pratica clinica quotidiana è tradotta spesso nella pessima somministrazione dei contenuti del format: o perché lo si assegna come un semplice adempimento burocratico o perché si cerca di convincere il paziente che qualunque cosa accada nell'attuazione delle procedure, la colpa deve ricadere su di lui, perché ha accettato. La pratica del consenso è essenzialmente dialogica e ha due versanti: il giuridico e l'etico. In mancanza della consapevole accettazione da parte del paziente di quanto proposto, il medico, qualunque sia l'esito della procedura, può essere perseguito se agisce senza avere raccolto la volontà dell'interessato, ad esclusione dell'urgenza e dei casi previsti dalla legge. Il versante etico è l'occasione per edificare una buona e responsabile relazione, in un momento rilevante della vita della persona, che è quello della comunicazione della diagnosi di malattia, delle possibilità terapeutiche e delle conseguenze possibili. La minaccia del «se viene il magistrato» nuoce alla buona pratica medica e fa porre in secondo piano la cura del versante etico, momento di incontro e dialogo per costruire la fiducia nei rispettivi ruoli e per creare il reciproco affidamento.
Le incertezze dei medici e il rischio della possibilità di errore hanno orientato i professionisti a tenere un linguaggio flessibile e adattabile a diverse interpretazioni, al fine di immettere lo stile attuale dell'esercizio medico in un'area di «difensivismo». La relazione tra medici e pazienti non è più orientata, come una volta, alla valorizzazione del processo empatico e solidaristico nella fiducia, ma è gestita all'interno di un rapporto dove prevale il rischio della temuta contrapposizione tra le parti. Non più accoglienza del paziente nello spirito della fiducia, ma richiesta di un servizio senza possibilità di imprevisti: siamo nell'era del diritto al risultato delle cure e, se non raggiunto, la colpa è del medico e della struttura. La quantità di processi giudiziari che i medici hanno dovuto e continuano ad affrontare, li tiene cauti per evitare l'agguato della denunzia e del risarcimento. La molla contro i medici scatta quando questi sono percepiti lontani dai pazienti, che temono di essere abbandonati. I momenti cruciali e di conflitto nella relazione medico paziente sfociano solitamente nella denuncia. Lo storico della medicina Renato Malta osserva che quando i casi eclatanti trovano spazio nei giornali, la stampa italiana li etichetta come casi di malasanità, come se tutto il sistema fosse coinvolto. Gli anglosassoni, per contro, usano il termine malpractice, confinando l'imperizia nella specifica procedura. Il nostro termine non ha un equivalente nella lingua inglese.
Gli occhi del paziente sono sempre rivolti al medico e al tratto che lui e gli altri operatori tengono nei suoi riguardi. Infatti, nelle lettere inviate ai quotidiani per l'assistenza ricevuta a chiusura di un processo di cura, i pazienti prima di tutto parlano della «umanità» con cui sono stati trattati; successivamente, della competenza e professionalità. Attenti a rilevare l'esistenza della percezione di sentirsi riconosciuti e accolti «come persone» ammalate e sofferenti, e non come organi da aggiustare, sono anche contenti di riconoscere le elevate competenze per essere stati liberati dalla malattia. In una società in continuo progresso tecnologico sembra essersi eclissata, ma non del tutto scomparsa, la domanda di «umanità». Essa costantemente si rinnova per le immutabili radici dell'autentica natura dell'uomo. Non è un caso che il neologismo bioethics – coniato nel 1969 da Van Reassealer Potter nel lavoro The science of survival – sia nato nell'ipertecnologica America del Nord, quasi a significare l'opportunità di un nuovo sapere per recuperare il valore delle scienze della natura nella prospettiva delle scienze umane. L'attenzione che odiernamente riscuotono le Medical humanities rende cogente l'approfondimento di queste tematiche.
Potter insegna che se è legittima l'istanza di progresso tecnologico, deve al pari essere presente l'istanza che traduca l'applicazione delle tecnologie all'interno del senso autenticamente umano del vivere.
Anche il linguaggio dei referti medici e delle consulenze ha le sue criticità: è diventato asettico, scarno e descrittivo di ciò che inconfutabilmente si vede, è privo di un'epicrisi ragionata tra esame e «quesito clinico». Quesito clinico, purtroppo, molto spesso formulato in modo generico, o perché non lo si sa porre o perché non si sa bene cosa si deve ricercare o per negligente frettolosità. Ne consegue che nessun aiuto giunge all'esaminatore da chi tiene in carico il paziente in merito a ciò che vuole che si cerchi. Il quesito clinico è la ragione per cui è stato chiesto l'esame; di conseguenza, in sua carenza, le indicazioni del referto potrebbero essere poco o niente utili. Quasi sempre i referti e le consulenze fanno il paio, concludono rimandando a ulteriori approfondimenti con nuovi esami e visite ulteriori: «Utile controllo...; Utile approfondimento con...», obbligando il paziente a una staffetta da un consulente all'altro. La mancanza di quesiti per nuove indagini, lascia pensare che possano essere solo un pretesto nell'ambito di un più ampio processo di deresponsabilizzazione che la società attraversa nell'epoca contemporanea. Ciò non tiene conto della responsabile amplificazione dei disagi dei pazienti, del loro pathos, degli sprechi in sanità, in un tempo in cui tanti italiani tralasciano di curarsi per problemi economici. Oggi, molto spesso, la medicina – lo è anche la burocrazia – parla il linguaggio della deresponsabilizzazione. Le indagini non sempre sono funzionali alla salute dei pazienti, ma alla messa in atto di una «medicina difensivistica», come definita da alcuni studiosi. La vera «medicina difensiva», invece, è quella che Ippocrate ammonisce di praticare nel giuramento, e lo fa con linguaggio schietto e pregno di responsabilità verso il malato e verso l'arte medica: «Prescriverò agli infermi la dieta appropriata [...] e li difenderò da ogni cosa dannosa e ingiusta». L'esame di cui il paziente non ha bisogno, ma è ordinato nella logica del «se arriva il magistrato», è inequivocabilmente «dannoso e ingiusto», per il paziente e per la comunità. Gli esempi che Jori trae dalla letteratura della medicina antica richiamano, invece, lo stile «difensivo», destinati a produrre il bene «possibile» del paziente. Nel «difensivismo», invece, è il medico che cerca in via prioritaria la propria tutela con azioni e linguaggio precauzionali, preso dalla paura di doversi – chissà, un giorno – difendere dai pazienti e dai loro familiari.
Il Paese è pervaso da una crisi di relazione che comporta sfiducia nell'altro e nel sistema: anche la voce del medico stenta a farsi credere. Il climax che caratterizza la filippica del dottor Purgon al povero Argante fino a dare fondo al suo vocabolario scientifico, trova analoga intensità nel crescendo di prescrizioni di esami strumentali sempre più complessi e sempre più invasivi fino a esaurire le possibilità tecnologiche. Un medico, durante la visita, disponeva che nel diario della cartella clinica la richiesta degli esami per il paziente fosse annotata con la dicitura «Tutto per ipertensione arteriosa», «Tutto per diabete». Adoperava un linguaggio centrato sulle tecnologie strumentali e non sulle peculiarità cliniche e l'anamnesi individuale del paziente. A parte questo insolito modo di operare, il colloquio tra medici e pazienti è sempre più dominato dal risultato tecnico degli strumenti, cui è affidato il significato di punto di arrivo del percorso diagnostico. Invece, è auspicabile che essi siano utilizzati come elementi utili per meglio parlare alla complessa e problematica soggettività del paziente.
Questi ha bisogno che qualcuno gli parli. Invece, il dialogo dominato dal risultato degli esami riduce le sue possibilità espressive e introspettive. C'è il rischio che il medico non parli al malato, e al suo posto faccia sentire la voce dei risultati: «Lo dicono gli esami» è il verdetto.
Si insegna agli studenti e ai medici in formazione che un paziente è diverso da un altro: ma nei protocolli delle sperimentazioni multicentriche il linguaggio adottato è chiuso in un'unica terapia per lo stesso pool di pazienti, come un lavoro in serie, anche se necessario. Eppure, nella differenza individuale delle risposte al trattamento, emerge l'unicità della persona e il suo status di paziente. Sempre più la categorizzazione dei pazienti in una malattia e in una terapia tende a far scomparire la personalizzazione del linguaggio nelle diverse circostanze, e l'unicità della persona si disperde nella collettività di malati riassunti in una patologia. Il medico si disabitua ad affrontare la multiforme variabilità delle situazioni cliniche e umane, giacché l'individuo è smarrito nel gruppo: anche i reparti mono-orientati facilitano il disorientamento.
Jori si sofferma analiticamente sui vari momenti in cui il linguaggio, spesso purtroppo difforme dai canoni della lingua italiana, è chiamato ad attualizzare l'esercizio in corsia e l'insegnamento della medicina agli studenti. Dalle relazioni cliniche di un tempo alle endiadi dei manuali, dal linguaggio delle commedie a quello dei romanzi, dalle informazioni dei «bugiardini» alle oscure formule chimiche, dagli acronimi agli inglesismi, Jori non perde occasione per far toccare con mano quanta strada dobbiamo ancora percorrere affinché il medico non parli una «sua» lingua, ma si conformi alla trasparenza del lessico nazionale, e, soprattutto, che eviti di avere una «sua» scrittura. Anche la qualità della scrittura, oltre a quella del lessico, è mezzo di buona relazione con il paziente e con quanti, anche per ulteriori consulti, si troveranno a dover «decifrare» frettolosi e incomprensibili geroglifici. Il Servizio Sanitario Nazionale italiano ha obbligato i medici convenzionati alla prescrizione della ricetta online: ci sarà un vantaggio rispetto al possibile ripetersi del caso americano, ma l'innovazione è dettata da obiettivi di controllo della spesa farmaceutica e non prioritariamente rivolta alla prevenzione del rischio clinico.
Un impegno di altra natura – cui l'Autore mostra di tenere particolarmente – richiede di armonizzare il linguaggio scientifico e il lessico ai canoni della lingua italiana, stimolando a far proprie le regole per elegantemente esprimersi. La qualità della scrittura di noi medici non è solitamente pari a quella degli illustri colleghi George Clemanceau, fondatore del giornale La Justice, Carlo Levi, Arthur Schnitzler, Anton Cechov, senza voler far torto a tanti altri qui non ricordati, ma abbiamo l'obbligo di farci comprendere. Nell'esaminare relazioni cliniche e manuali di studio, l'Autore ha incontrato stesure formalmente corrette, chiare ed efficaci nei contenuti da trasmettere, mentre non ha potuto non notare che altre erano lessicalmente errate e incomprensibili sia per i pazienti che per gli stessi medici. Consapevole che scrivere bene richiede allenamento – Nulla dies sine linea, insegnano i maestri – l'Autore ha avuto l'accortezza di dedicare alcuni paragrafi a un brevissimo vademecum, finalizzato a porre in essere un periodare corretto, chiaro e preciso, a vantaggio della comprensione dei pazienti, risparmiandoli dagli astrusi acronimi.
Sembra che nessuno dei due professionisti della commedia di Molière voglia essere inferiore all'altro nel conseguire il maggior profitto economico, ed entrambi si sforzano di obbligare il paziente ad accettare la propria proposta: il farmacista tratta sul prezzo; il medico, addirittura, si fa scudo dell'area aurea del prestigio di casta. Il linguaggio è astuto e vuole la cattura del paziente, la sua schiavitù, di cui al "Modello 2", colpevolizzandolo e reificandolo. In tempi successivi Emmanuel Kant nella Critica della ragion pura raccomanderà di trattare l'uomo in ogni circostanza come fine e mai come mezzo: a maggior ragione nella fragilità della malattia.
Oltre agli innumerevoli sostantivi, verbi e aggettivi con cui i linguaggi orali e scritti esplicitano l'infinita variabilità delle circostanze tecniche e dei moti dell'anima, nella relazione tra i pazienti e i medici una particolare attenzione deve essere riservata «al linguaggio del corpo» silenzioso messaggero dei sentimenti interiori che chiedono di essere decodificati con acuta intelligenza introspettiva. È la forma più sincera di comunicazione di sé, non inficiata dalla suggestione delle parole. I segni fisici svelano, nel silenzio, la sensibilità della persona e il patema dell'anima per la sofferenza che la travaglia. Ogni malato custodisce ansie e timori a causa dell'incerto destino di sé e dei congiunti che lo stato di malattia comporta. È un uomo colto nella fase di regressione personale, familiare e sociale, giacché la malattia respinge all'indietro la naturale pulsione di ognuno a voler servire i propri ruoli. In quei momenti il linguaggio degli sguardi veicola l'indicibile dramma dell'anima liberata nei gesti del corpo. È il campo dell'empatia, dentro cui ognuno cerca la sintonia con l'altro, di assumerlo nella propria sfera di intervento e comprenderlo senza dire una parola.
Il volume del Professor Alberto Jori appare attrattivo e dimostra la competenza dell'Autore – anche basata sulla padronanza delle fonti – e merita larga diffusione, in quanto propone a medici e dottori un miglioramento dell'attuale linguaggio sanitario, al fine di rendere più valido il rapporto medico-malato, oggi purtroppo assai logorato. Le analisi, le critiche e le proposte di Jori permettono di comprendere e ritrovare l'essenza vera dell'«arte lunga» con miglioramento della prestazione sanitaria e della salute. Un obiettivo non da poco.
Il mio augurio lo segue.
Palermo-Roma, marzo 2018
Prof. Adelfio Elio Cardinale
Presidente "Società Italiana di Storia della Medicina"
Scritto da Isabella il 07/04/2022