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Il tempo degli umani si stempera nell’orizzonte lineare compreso fra l’alba e il tramonto dell’esistenza oppure si dilata nel cosmo senza fine delle generazioni passate e di quelle future?
Si conserva la memoria oltre il termine della vita e prima della fusione dei gameti?
La cronoriflessologia si pone come una bussola biologica per guidarci nella navigazione del Tempo, uno strumento per ascoltare la voce degli Antenati. La Cronoriflessologia (o AgeGate Therapy) si basa sulla mappa temporale, individuata sulla colonna vertebrale dal medico ricercatore Vincenzo Di Spazio nel 1996: ogni punto spinale si comporta come una porta dimensionale, rappresenta in altre parole il canale di passaggio diretto all’età, in cui siamo stati esposti ad una esperienza traumatica. La stimolazione dei punti spinali coinvolti consente la rievocazione della memoria traumatica e la sua risoluzione.
Nel corso della nostra esistenza ci confrontiamo con periodi molto turbolenti per la nostra salute, senza capirne molto spesso l’origine: l’esempio classico è quello riferito agli attacchi di panico, che esordiscono e irrompono nella nostra vita in modo totalmente inaspettato e incomprensibile.
Dalle indagini cliniche in cronoriflessologia è emersa molto spesso una coincidenza anagrafica impressionante fra l’età di esordio del primo attacco di panico e l’età di un antenato al momento del decesso o quando è stato esposto ad un evento luttuoso.
Questo esempio dimostra quanto possano incidere e influenzare la nostra salute vicende familiari stressanti avvenute anche molto tempo prima della nostra nascita.
I temi presentati in questo eBook sono i seguenti:
- La scoperta dei punti cutanei del Tempo sulla colonna vertebrale
- Come si svolge una sessione di cronoriflessologia
- Il rivoluzionario concetto di patomimesi (imitazione della malattia) in medicina
- La sincronicità di eventi nel passato e malattia nel presente (cronomimesi)
- Trasmissione transgenerazionale delle memorie traumatiche
- Presentazione di casi clinici trattati con la cronoriflessologia
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Prefazione di Alberto Giovanni Biuso
Il tempo liberato. Dolore, memoria, guarigione
1. L’eco del passato
2. Onore agli antenati
3. Saluti dal 21 ottobre 1915
4. Messaggi dagli invisibili
5. Humana temporis machina
6. Il corpo non dimentica
7. Nome in codice U0126
8. Navigare il mare del tempo
9. Io sono gli occhi di chi non ha occhi
10. Il gene reminescente
Appendice
Decalogo di sopravvivenza al lutto
Cronogramma spinale (AgeGate Clock)
Cronogramma semplificato (Di Spazio, 2008)
Glossario cronoriflessologico
Breve storia della cronoriflessologia
Contributi (hanno detto)
Bibliografia
Webliografia
Altre informazioni utili dal web
L’autore si presenta
Biografia autore
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Il corpo non è soltanto organismo ma costituisce il centro da cui si dipartono i significati, il linguaggio, l’intenzionalità e il tempo, da cui prende avvio il mondo intero. Ecco perché io non ho un corpo ma sono corporeità vivente, tanto che se d’improvviso la mia figura cambiasse forma, io non solo non sarei più riconosciuto da alcuno ma non sarei più io, poiché è nella profondità temporale del corpo vissuto che si iscrive, pulsa e si dipana la mia storia, ciò che a ragione posso definire io. Pensare il corpo che sono come una modalità dell’essere diversa da me significa lasciare al pensiero solo il nulla, il vuoto sconfinato di ciò che mai sono stato. Il corpo non è un oggetto ma costituisce la pienezza di senso che è il mio essere al mondo, il mio starci nel tempo, il mio essere tempo. Mentre, infatti, ogni altro ente è oggetto del mio sguardo, del tatto, del volgersi e rivolgersi del corpo verso di esso, il corpo è ciò che rende possibile ogni prensione e conoscenza. Posso distogliere la mia attenzione dalle cose ma non posso cancellare l’attenzione continua verso il mondo che il mio corpo è.
Uno dei limiti più gravi ed emblematici dell’approccio “scientifico” – e cioè soltanto organicistico- alla corporeità sta invece nella visione puramente strumentale e quantitativa dell’umano. Per la medicina contemporanea il corpo è una cosa fra le altre che ci si illude, quindi, di poter dividere in parti, sezioni, organi, funzioni, che si crede di poter analizzare, diagnosticare e guarire in modo separato dall’intero. La medicina costruisce così per se stessa una corporeità frammentata, oggettivata e non vissuta. Difficilmente, quindi, compresa nella sua complessità e nella continuità fra salute e malattia, due concetti che di fatto vengono ontologizzati come se fossero due stati dell’essere. È anche per questo loro atteggiamento che le scienze mediche non hanno a che fare con le relazioni mondane e temporali che costituiscono il corpo ma soltanto con frammenti di tempo/corpo irrelati, isolati, artificiosamente autonomizzati. Una medicina costruita sulle schegge dell’umano, sui suoi brandelli invece che sulla interezza del corpo-tempo-mondo, non riesce a capire che non si muore perché ci si ammala ma la malattia è una delle espressioni più nette della finitudine e della mortalità dell’umano. È probabilmente quanto aveva intuito il medico pitagorico Alcmeone, per il quale gli uomini muoiono poiché sono incapaci di congiungere l’inizio e la fine. Di che cosa? Del loro corpo pulsante, della materia temporale che sono.
Se la coscienza è tempo incarnato, il ricordo è una delle forme in cui mente e corporeità si incontrano mediante l’atto concreto e intenso di esistere, al quale è costantemente rivolta –intenzionata- la nostra interiorità. Spazio e tempo sono forme a priori non solo della conoscenza ma anche dell’agire ed è nell’agire –nella vita, proprio nella vita- che il corpo coincide con la memoria. Una lunga e accurata indagine clinica ha consentito a Vincenzo Di Spazio di ampliare la pratica diagnostica e terapeutica oltre il tempo del soggetto, immergendolo in quello dei «nostri antenati, che recitano all’infinito il loro tragico ruolo; noi vediamo questi eventi passati non con i nostri occhi, ma con i nostri geni»; dei nostri avi ripetiamo persino i visi, certi modi di dire, le inflessioni, le andature. Ecco perché –continua Di Spazio- «ogni qualvolta si affronta un disagio dobbiamo interrogarci non soltanto sul come (la modalità) e sul dove (la localizzazione spaziale), ma anche e soprattutto sul quando (la localizzazione temporale): interrogarci sul quando apre poi la strada alla comprensione del perché (la sorgente del conflitto emozionale). I sintomi corporei devono essere tradotti attraverso questa griglia interpretativa per essere ricondotti al perché si siano generati: il perché è localizzato in un punto del tempo (recente o remoto), dove siamo stati esposti in modo diretto (la nostra storia biografica) o indiretto (la nostra storia familiare) ad un’esperienza dolorosa».
La memoria può essere liberata e guarita mediante l’identificazione e il dissolvimento dentro il nostro corpo –in particolare nei punti spinali bilaterali- degli effetti dei traumi che hanno preceduto il nostro concepimento e che il gene emozionale ci ha trasmesso. La corporeità, infatti, è intessuta di emozioni, di sentimenti, di percezione soggettiva dell’esistenza nel suo fluire temporale. Il corpo è il nodo ontologico nel quale si raccolgono il mondo, il tempo e i significati. Fin dal suo nascere il corpo umano è collocato e si muove in un continuum inseparabile di anatomia organicistica, di scambi metabolici con l’ambiente naturale e artificiale – con l’insieme degli enti che si fanno da sé e con quelli che la specie produce-, di significati mentali introiettati mediante la relazione con gli altri umani, a cominciare dalle figure parentali e allargandosi a gruppi via via più ampi sino a comprendere potenzialmente l’intera specie. È per questo che in molte culture arcaiche il morto viene seppellito con gli oggetti da lui utilizzati in vita, perché la morte non è la separazione dell’anima dal corpo ma la separazione del corpo da quel mondo in cui la pienezza del vivente trova i suoi significati. Anche le promesse escatologiche dei Greci sono intessute di una concezione della psiche tesa a mantenere intatte nel tempo -o addirittura per sempre mediante l’acqua fredda di Menmosine contrapposta a quella della fonte Lete- «memoria e coscienza, le prime condizioni d’una vita piena e beata»1. Memoria e coscienza sono le forme deste della vita umana, il fondamento di ogni razionalità e di ogni sentimento.
Che cos’è, infatti, il mondo per l’essere umano se non tempo che diventa materia, flusso che sembra fermarsi in strutture? E quindi la verità del corpo/mondo non può che essere il corpo/tempo. La morte, questa esperienza mai vissuta e sempre attesa, non è il risultato del semplice degrado degli organi, non è un fenomeno contingente che un qualche spettacolare sviluppo delle scienze mediche e conservative potrà prima o poi sconfiggere ma è l’esito ultimo di quel «tempo dell’invisibile [che] si intreccia con il tempo del visibile e regola il passaggio delle generazioni, dove il respiro degli antenati invade di continuo ogni nostra azione, ogni evento» poiché «il nostro slancio vitale è appesantito dalla zavorra dei ricordi che non ricordiamo, il corpo geme per ferite che nessuno vede. Piango lacrime di altri umani, mi batte il cuore spezzato da tragedie, che nessuno mi ha mai raccontato», come l’Autore di questo libro sa dire con la partecipazione profonda di chi conosce il dolore e non soltanto lo studia.
La prima e costante forma del morire è la dissoluzione mnestica, l’inevitabile svanire dei ricordi causato dal processo dinamico e immateriale in cui consiste la memoria. In tedesco percepire –spu?ren- e traccia –Spur- condividono la medesima radice. Una traccia che secondo Bergson rimane più forte di qualsiasi cancellazione poiché nulla si annienta, nulla viene distrutto, nulla scompare, «il nostro passato ci segue, si arricchisce senza sosta del presente che raccoglie sulla sua strada; e coscienza significa memoria»2, anche la memoria dei nostri avi ancora ben viva e presente nell’«identità dolorosa in un disperato e ostinato abbraccio, che riverbera invariato attraverso le generazioni». È, questo, il complesso e fondamentale «fenomeno della patomimesi, l’imitazione della sofferenza di chi abbiamo amato e non c’è più», esso «consente di scoprire impensati legami di amore e condivisione, inalterati attraverso il tempo delle generazioni».
La memoria di cui gli umani sono letteralmente composti si rivela sprofondata nelle onde continuamente ritornanti delle vite di coloro da cui siamo emersi. Una relazione che ha permesso a molte culture umane di accogliere la morte in un tessuto di scambi simbolici per il quale nessuno è davvero morto per sempre perché nessuno è soltanto soggettività ma è parte, momento, manifestazione della totalità naturale intrisa di significati e quindi sacra. Sembra, questa, anche una strategia volta ad alleggerire ciò che Di Spazio descrive come «il pesante fardello delle esperienze traumatiche [che] condiziona e limita l’espressività vitale dell’individuo [e] ripercuote il suo carico sulle generazioni successive. Ogni esposizione al lutto, alla perdita di chi (o cosa) amiamo, impatta con violenza sull’equilibrio dell’unità corpomente e ne mina invariabilmente le risorse difensive (…) Le indagini effettuate mediante la cronoriflessologia spinale documentano questo legame e confermano nella discendenza la ripetizione di un modello comportamentale negativo o di una non casuale predisposizione morbosa». Tutto questo avvalora quell’«inquietante fondo di verità [che] sembra albergare nei misteriosi riti dell’antico sciamano, colui che aveva il potere di comunicare con gli antenati e per questo di guarire gli ammalati».
Il tempo genetico è dunque la persistenza nel corpo degli eventi, delle gioie e dei traumi accaduti ai corpi di coloro da cui proveniamo. Il DNA trasmette da una generazione all’altra i caratteri somatici e gran parte di quelli psicologici. Il gene emozionale conserva la memoria del vissuto, che sarà a sua volta plasmato dai nostri giorni e da noi trasmesso ad altri. Soddisfazioni e sofferenze che riteniamo nostre sono anche l’eco persistente di antiche esperienze. Il genoma umano è intessuto di tempo e da esso scaturisce la temporalità propria della specie, che non è quindi un dato speculativo o soltanto esistenziale ma letteralmente biologico. Tra tempo e corpo vige una strettissima e rigorosa interdipendenza, radicata nella vita stessa delle cellule e delle molecole. Una durata biologica che da se stessa genera la forma mentale del tempo, che produce l’unitarietà ma anche l’estrema differenziazione del modo in cui i soggetti sperimentano il vivere e i suoi ritmi. Finalmente, «accadimenti anche molto lontani fra loro possono essere riletti secondo un nuovo modello interpretativo (e terapeutico) e vincolati a precise leggi di causa-effetto, dove dominano incontrastate le regole dello spazio-tempo» poiché le «immagini di un lontano passato sono ancora impresse sulla lastra fotografica del nostro corpo, il vero testimone di tutte le memorie, l’archivio vivente del tempo». Con una efficace formula, Di Spazio sostiene che «il ricordo del dolore è il dolore del ricordo».
Alberto Giovanni Biuso
Filosofo della Mente
Università di Catania
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Scritto da giorgio il 02/02/2022